L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ritorna il festival del sorriso

di Francesco Bertini

Il glorioso festival dell'operetta di Trieste riprende felicemente la propria attività e propone uno degli ultimi capolavori di Franz Lehàr, che in un mondo irrimediabilmente mutato dopo la Prima guerra mondiale, fra crisi economiche e con le tragedia incombenti dei totalitarismi e del Secondo conflitto, riesce ancora a proporre il sogno, venato ormai di malinconia, di un Paese del sorriso.

TRIESTE, 28 giugno 2014 - Dopo alcuni anni di pausa, dietro ai quali si maschera lo spettro dei tagli alla cultura e del generale disinteresse nel quale versa il teatro musicale nel nostro paese, torna l’operetta a Trieste nell’ambito di quel festival, appositamente dedicato, che vanta più di quarant’anni d’attività. Il pubblico cittadino e gli appassionati giunti “da fuori” hanno la possibilità d’apprezzare questo genere ingiustamente trascurato: l’occasione triestina è particolarmente ghiotta per la ripresa di Il paese del sorriso (Das Land des Lächelns) di Franz Lehár nell’allestimento ideato nel 2008 da Damiano Michieletto (l’attuale ripresa è affidata a Eleonora Gravagnola), regia, Paolo Fantin, scene, Silvia Aymonino, costumi e la preziosa collaborazione di Sandhya Nagaraja per le coreografie.

La produzione è costituita da un impianto scenico fisso che pone ad un lato una grande struttura semisferica la quale si trasforma da campo da golf a stanza da letto (le pareti trasparenti giocano sul vedo non vedo), fino a diventare la prigione per la povera Lisa. Fantin colpisce per il sapido gioco di colori tra il fondale e il proscenio con le luci che assecondano un forte intento virtuosistico. D’altro canto la cifra fondamentale dello spettacolo, non più recentissimo, di Michieletto è la comicità spesso basata sui doppi sensi del libretto e su una precisa caratterizzazione dei personaggi, a discapito, in alcuni casi, della definizione dei due protagonisti e della valorizzazione degli aspetti più realistici e umani. Il regista, coadiuvato dalla coreografa, ambisce a sfruttare le possibilità spaziali del palcoscenico senza lasciare intentato alcunché riguardi le scene di massa. Il vorticoso corpo di ballo Imperfect Dancers Company, composto da otto ballerini provenienti da Europa e Nord America, partecipa attivamente allo spettacolo commentando silenziosamente e spiritosamente i momenti topici dell’operetta. I pittoreschi costumi contribuiscono a rendere cromaticamente vivace l’allestimento, soprattutto nell’allegorica ambientazione pechinese.

Antonino Fogliani, alla guida di una perfettibile Orchestra del Teatro Lirico “Giuseppe Verdi” di Trieste, legge la partitura con una leggerezza d’intenti capace di evidenziare compiutamente le screziature malinconiche tratteggiate dal libretto. Fin dall’ouverture il direttore sottolinea i temi salienti del percorso musicale che attende l’ascoltatore, ricreando un universo sonoro compiuto e in sintonia con le caratteristiche peculiari del lavoro nel suo complesso. Palesa alcune défaillances, in particolare tra le voci femminili, il Coro della fondazione friulana, preparato da Paolo Vero.

La parte tenorile è particolarmente importante: Lehár scrisse nel 1923 Die gelbe Jacke (La giacca gialla) che rappresenta la prima versione di Das Land des Lächelns (Il paese dei campanelli) battezzata il 10 ottobre del 1929 (a breve distanza dalla grave crisi economica che colpirà l’intero pianeta) a Berlino e concepita per uno dei collaboratori preferiti del compositore in quegli anni, Richard Tauber. Il tenore austriaco era dotato di uno strumento memorabile, da alcuni ricordato come uno dei più interessanti dell’intero Novecento, e di un’intelligenza musicale raffinata che lo rendeva ideale per affrontare la scrittura di Lehár. Nell’edizione triestina il giovane Alessandro Scotto di Luzio, Principe Sou-Chong, esibisce il proprio timbro cristallino, l’emissione duttile anche se a volte spoggiata, soprattutto in zona acuta dove affiora qualche difficoltà. Il cantante fraseggia e interpreta con consapevolezza la parte, ma manca di un pieno coinvolgimento scenico e denota una certa rigidità che poco giova alla riuscita caratterizzazione del personaggio. La russa Ekaterina Bakanova, impegnata nel ruolo di Lisa, è soprano interessante per nitore canoro e estensione vocale, doti appropriate per l’operetta, ma lascia alquanto a desiderare per la dizione goffa che inficia i frequenti e rilevanti dialoghi. Frizzante è la Mi di Ilaria Zanetti, benché il ruolo vada oltre le sue potenzialità vocali, com’anche il Conte Gustav von Pottebstein di Andrea Binetti, caratterista dall’apprezzabile espressività scenica, maturata in anni di lavoro teatrale, ma dalle doti canore non sempre all’altezza. Fanno del proprio meglio Sara Alzetta, Sua eccellenza Hardegg, e Adele Amato de Serpis, Lore. Nelle parti recitate, affidate ad attori, si distinguono principalmente il divertente e disinvolto Simone Faucci, Il capo degli eunuchi, e Gualtieri Giorgini, nei panni del conservatore Tschang, zio di Sou-Chong. Vanno menzionati anche Maurizio Rapotec, Conte Ferdinand Lichtenfels, e Adriano Grimaldi, Fu-Li. Il pubblico presente in sala apprezza lo spettacolo e decreta il successo di un genere troppo poco considerato in Italia.

 


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