L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Quando il Requiem ha fretta

di Luca Fialdini

Il terzo attesissimo appuntamento con la rassegna Anima Mundi, pur ricevendo lunghi applausi, non si conferma all’altezza delle aspettative

PISA 14 settembre 2022 – La Missa solemnis di Beethoven e il Requiem di Verdi sono senza dubbio gli eventi più attesi della XXI edizione di Anima Mundi, insieme all’amato Requiem di Mozart diretto da Trevor Pinnock. Senza dilungarsi in preamboli, purtroppo il concerto non è stato all’altezza delle aspettative. Le due composizioni che nel programma di sala precedevano la Messa in re minore – il raro Libera me, Domine di Haydn e l’Ave verum corpus dello stesso Mozart – hanno offerto un inizio molto promettente, con tutte le intelligenti raffinatezze che ci si attendono da un pioniere delle esecuzioni storicamente informate come Pinnock; il problema è rappresentato proprio dal Requiem.

Una pagina attraversata da ombre e inquietudini, che passa dal più intimo dolore all’abbagliante luce di umanità viene resa al pubblico con singolare freddezza. I contrasti dinamici che definiscono il carattere di Mozart sono appianati, conducendo ad una omogeneità generale in cui ogni cosa è controllatissima ma senz’anima. Questa mancanza di contrasti sensibili delle dinamiche conduce anche a interpretazioni erronee della partitura, come accade nel Domine Jesu in cui l’orchestra suona tendenzialmente forte anche all’ingresso dei quattro soli («sed signifer sanctus») rendendo tutto uniforme, invece il piano dell’orchestra in corrispondenza del contrappunto dei solisti oltre a creare varietà prepara il forte dopo «lucem sanctam» che deve portare al nuovo ingresso del coro («quam olim Abramae»).Pinnock ha evidentemente una conoscenza capillare della partitura, tuttavia la scelta di tempi a dir poco corrivi spegne qualsiasi fraseggio, spoglia le linee melodiche di ogni caratterizzazione e impedisce lo sviluppo di colori. Tutto è veramente troppo veloce senza tener conto né delle indicazioni presenti in partitura né delle necessità specifiche del singolo brano (il delicato contrappuntismo del Recordare reso irriconoscibile ne è un esempio). Al netto delle intromissioni di Süßmayr, alla fine si tratta comunque di Mozart e l’autore stesso fornisce già tutto quel che è necessario all’esecutore: è possibile fornire una lettura ulteriore se lo si ritiene proprio necessario, ma allora si richiede un’idea forte al punto da sapersi inserire nel contesto; è difficile immaginare quale sia stato il pensiero di Trevor Pinnock in questo caso, forse quello di imprimere una certa dinamicità al testo ma si ammetterà che il risultato, oltre a prestare il fianco a molte obiezioni, è assai distante dalle intenzioni del compositore.

Prova poco convincente anche da parte dell’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento che se da una parte non ha avuto troppo spazio per i motivi di cui sopra, dall’altra si è mostrata al folto pubblico quanto meno spenta. L’intonazione – a parte uno o due inciampi nei violini – è buona, c’è una certa compattezza, un buon amalgama con il coro e si segue con cura il podio, ma tutto resta quasi in sordina. Dai legni non esce alcun colore capace di catturare l’interesse di chi ascolta, gli ottoni hanno qualche squarcio in più dovuto in fondo alla potenza dell’emissione e gli archi non appoggiano mai. Quest’ultimo dato è forse quello che ha più responsabilità nell’impressione di una generale freddezza perché se già il tempo imposto è molto al di sopra del dovuto, un suono esile e tendenzialmente corto finisce per togliere ogni emozione: l’alternanza di biscrome e semicrome puntate nel Requiem aeternam in corrispondenza del collettivo «exaudi» è quasi meccanica proprio perché le semicrome sono troppo corte, mentre necessiterebbero di una porzione d’arco maggiore; i ribattuti del Dies irae che rappresentano il fuoco, una delle categorie estetiche mozartiane più importanti, sono veramente poco efficaci.

L’Ensemble vocale Continuum preparato da Luigi Azzolini dà una buona prova, però inficiata da due errori clamorosi: la vocalità con cui si è deciso di affrontare il Requiem è squisitamente barocca e se non è sbagliata non si può neanche dire che sia corretto cantare una composizione del 1791 nello stile di cento anni prima, ma ancor più di questo il numero di coristi è troppo esiguo. Nei momenti strettamente corali l’Ensemble ha ancora una buona tenuta, ma nei – molti – momenti contrappuntistici e soprattutto nelle due grandi fughe si avverte la mancanza di ulteriori cantanti nelle singole sezioni.

Ottima la prova dei quattro solisti: meno efficace il tenore Maximilian Schmitt, dalla dizione non sempre impeccabile, mentre Matthew Brook fa mostra di uno strumento estremamente interessante, dotato di un colore brunito e di un eccellente controllo su tutta l’estensione; Lauryna Bendžiūnaitė è una nota di pregio: il bel timbro luminoso e pulito è ideale nei due brevi, intensi passaggi riservati al soprano nell’Introitus e nel Communio; il mezzosoprano Anna Bonitatibus, pari merito con la collega, dimostra un fraseggio morbido e accurato unito a un’intensa interpretazione.


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