L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La levità setosa di Dresda per Beethoven e Bruckner

di Francesco Lora

I concerti di Christian Thielemann con la Staatskapelle, al Teatro alla Scala, affermano una relazione artistica privilegiata tra direttore e orchestra, avviata tuttavia al tramonto e con un futuro professionale anche milanese per questo massimo concertatore tedesco.

MILANO, 8 e 9 settembre 2022 – Prendendo il discorso alla larga, è un peccato che, da contratto, il rapporto tra Christian Thielemann e la Sächsische Staatskapelle Dresden s’interromperà nel luglio 2024: dopo d’allora, il nuovo direttore musicale sarà il designato Daniele Gatti. È un peccato – si diceva – in quanto la relazione umana tra Thielemann e la Staatskapelle è stata non sempre serena, ma quella artistica ha avuto esiti impressionanti in una fase pur affollata di grandi orchestre con direzioni eccellenti. Per Thielemann, il massimo concertatore tedesco in attività da una generazione abbondante a questa parte, l’incarico a Dresda doveva significare soprattutto un avvicinamento geografico e istituzionale al pesce più grosso e alla più ambita preda: la direzione musicale dei Berliner Philharmoniker, in prossimità del congedo di Sir Simon Rattle. Ma nel conclave dei professori Thielemann è entrato papa e uscito cardinale: i suoi modi autorevoli ma anche autoritari, nonché certe sue dichiarazioni nazionaliste, non sono più ben accetti presso un’orchestra di vocazione internazionale e ormai distante dall’aura cesarea di Herbert von Karajan. Al contrario, la Staatskapelle, con Thielemann, ha dato e ricevuto tutto il meglio, salvaguardando e implementando la propria tradizionale e antica idiomaticità germanica di linguaggio, nella torre d’avorio di una tra le città più belle al mondo e cariche di eredità storica.

Non càpita con qualunque bacchetta: non meno dei Berliner, dei Wiener, delle big five londinesi e di quelle statunitensi, la Staatskapelle potrebbe essere la regina di tutte le orchestre, e lo si giurerebbe d’impulso alla fine di ogni suo concerto; però il suo passaggio italiano in una tournée del 2018, sotto la vacua direzione di Alain Gilbert anziché di Thielemann, fece sembrare spento persino il Mahler del Titan. E cosa c’è nel futuro di Thielemann? Sembra prospettarsi la ripresa di una sua significativa presenza italiana: per lui che dall’Italia ebbe la fiducia necessaria al decisivo lancio di carriera; per lui che ha pressoché rimosso la giovanile esperienza italiana dall’autobiografia. Egli è volentieri accorso a sostituire Esa-Pekka Salonen, lo scorso autunno, nel trionfale concerto inaugurale della stagione sinfonica del Teatro alla Scala, con Brahms, Richard Strauss e la Filarmonica; egli dirigerà, ancora a Milano, mentore il Dominique Meyer già fautore di tante sue supreme letture alla Staatsoper di Vienna, una nuova, agognata produzione del Ring des Nibelungen di Wagner. Quanto alla sua doppia apparizione alla Scala nel 2020, con la Staatskapelle, essa era saltata per emergenza sanitaria ed è stata recuperata, con altri programmi, gli scorsi 8 e 9 settembre.

Si è trattato di serate musicali a partire dalle quali si ricalibra, esterrefatti, il senso della qualità dell’eseguire musica, dell’ascoltarla e del tornarvi col pensiero, rimandando di giorno in giorno l’incombenza troppo responsabilizzante, e dunque spogliata d’autorità, del recensire quanto passato per gli orecchi. Un solo insulso difetto ambientale, da liquidare in testa a tutto: il ritorno dei turisti casuali nella sala piermariniana, quelli che applaudono tra i movimenti delle sinfonie. Ed è proprio il repertorio sinfonico a fornire programmi ideali per la loro varietà reciproca di testi nonché per la mostra di risorse del podio e dell’orchestra.

L’8 settembre Thielemann e la Staatskapelle hanno eseguito la Sinfonia n. 5 di Bruckner, così introversa, eclettica ed enigmatica, ardua da proporre e condurre, forse proprio per questo così deliberatamente amata dal direttore berlinese, che già nel 1996 la volle in cartellone al Teatro Comunale di Bologna strigliandone a perfezione l’orchestra, e che già due volte l’ha consegnata al disco, prima con i Münchner e poi con i Wiener Philharmoniker. È stata l’occasione per confrontarsi, all’ascolto, con un’escursione dinamica tra le più spaventosamente ampie, con una compattezza fonica che tuttavia sempre mantiene la levità setosa e con una partitura assimilata a memoria da Thielemann fino ad annullare i segni sulla partitura nei suoni dell’orchestra: ogni frase chiede e prende il proprio tempo inquieto, palpita e indugia al proprio intorno, ammette microscopici sfasamenti tra i righi, rientra nel metro ma mette in crisi l’orologio della stanghetta di battuta. È la musica, appunto, sgravata dall’inchiostro e restituita – per così dire – alla natura.

Il 9 settembre è invece stata la volta delle Sinfonie nn. 7 e 8 di Beethoven, anch’esse già testimoniate in disco da Thielemann, la prima con la Philharmonia Orchestra ed entrambe con i Wiener. Ribadire tali precedenti è opportuno poiché l’approccio thielemanniano a tutto il repertorio, Beethoven compreso nella sua particolare scabrosità, permane disinteressato a qualsivoglia tentazione filologica; è al contrario perseguito il modello dei grandi maestri tedeschi postromantici, quali documentati, appunto, dal disco e per il disco, lavorando sulla tornita omogeneità di suono la quale corrispondeva, di certo un tempo ma assai meno oggi, al canone stesso della bellezza sonora: ciò, a frequente discapito della pregnanza retorica del fraseggio. In modo sorprendente, è proprio il procedere nel solco della tradizione a procurare una più rapida obsolescenza delle interpretazioni: le incisioni beethoveniane di Thielemann, con gli eventuali relativi concerti, facevano gridare al miracolo alla loro uscita e oggi rivelano invece qualche ruga. Le due sinfonie eseguite alla Scala con la Staatskapelle, manco a dirlo, suonano in linea con l’approccio aggiornato al 2022: luminosissime ed equilibrate nella timbrica benché i soli primi violini siano addirittura sedici e i legni tendano quantitativamente a finir relegati in secondo piano; scattanti nella ritmica nonostante l’arrotondamento dei tempi puntati fino al loro odorare di terzina: un vezzo d’altri tempi che però qui corrisponde a compiaciuta sornioneria, non a flemmatica pigrizia. Fino al doppio trionfo di Bruckner e Beethoven: con Thielemann, con la Staatskapelle e con Thielemann con la Staatskapelle, si giurerebbe d’impulso – come già si diceva – di non aver mai ascoltato di meglio. È un peccato che le loro vie si stiano separando.


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