L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Un tal baccano in chiesa

di Roberta Pedrotti

Una nuova produzione di Tosca apre ufficialmente, dopo l'anteprima wagneriana, la stagione lirica del Comunale di Bologna. Ed è festa grande, nonostante una nuova produzione firmata Oren e De Ana non proprio esaltante.

BOLOGNA, 29 gennaio 2022 - Dopo l'anteprima con Oksana Lyniv sul podio, ecco che il Teatro Comunale apre i battenti all'opera con tutti i crismi di una nuova produzione sul palco. Un'inaugurazione un po' diluita – là, con la nuova direttrice musicale, un interesse artistico più stuzzicante, qui comunque la completezza della produzione teatrale – ma non meno festosa. Un po' di sfarzo in meno, che non guasta, qualcuno nel foyer che si scorda le norme di comportamento, il che, fra servizi fotografici infiniti e interviste di tv locali a cronisti locali, guasta un po' di più: rispettare l'obbligo di mascherina è anche una forma di elementare educazione verso che segue le regole, e se è necessario toglierla basta appartarsi.

Buio in sala. Alla cronaca mondana succedono la musica e il teatro. È Tosca, finalmente. Il pubblico è numeroso, caloroso, anche entusiasta alla fine. Tant'è vero che risulta perfino superflua la chiara volontà di Daniel Oren di suggellare il buon esito consegnando agli annali anche due bis. Sì, perché in effetti non se ne è avvertita la pressante richiesta da parte del pubblico – che pure ha applaudito con ardore – dopo “Vissi d'arte”. Già si tratta di una pausa drammatica che diede da pensare a Puccini: se deve essere prolungata con la ripetizione, si faccia, ma di fronte a un'autentica, bruciante necessità, che qui non si è sentita, mentre si è visto bene l'immediato cenno d'intesa fra soprano e direttore senza attendere le richieste della sala. Quando poi, per “E lucevan le stelle”, i consensi per Roberto Aronica non sono inferiori a quelli per Siri, va da sé che anche l'addio alla vita del tenore si replichi. Entrambi hanno meritato il consenso del pubblico, non si nega il loro valore, ma proprio per questo è risultata un po' sopra le righe la volontà di sottolinearlo con un bis, che dovrebbe essere una risposta eccezionale e quasi obbligata a un teatro incandescente che non accenna placarsi nelle sue richieste.

Così come pare aver cercato di consacrare un successo “d'altri tempi”, anche la concertazione di Oren è parsa “d'altri tempi”, ma nel senso deteriore del termine, datata nella sua superficialità di routine che assai di rado si è accesa delle zampate, magari un po' esteriori ma pur sempre efficaci, cui ci ha abituati il maestro israeliano. Poco o nulla si scava nelle pieghe raffinatissime della partitura, nella tensione distillata con rara sapienza teatrale da Puccini, ci si abbandona alla melodia,  senza che a questa si conferisca sempre il legato, l'articolazione, il respiro e la consequenzialità drammatica che le spetta. Insomma, se l'esecuzione risulta spesso imprecisa, talora sciatta, o comunque poco interessante, quel che è peggio e che da Oren non ci si sarebbe mai aspettati, è che manca anche d'effetto.

Parimenti, fra tutti gli allestimenti di Tosca ideati da Hugo De Ana, questo pare il meno ispirato e più rinunciatario. Elementi tipici della sua iconografia – tanto tipici che sembrano presi a prestito da produzioni, precedenti, in primis quella areniana del 2006 – si confanno, nel loro tenebroso barocco, alle atmosfere di Tosca, ci sono effetti di luce (di Valerio Alfieri) di gran classe, ma la recitazione è ordinaria, né si capisce il significato di quei due portoni, dei frammenti di statua colossale, dei velari dipinti. Anche qui, tradizione rassicurante, ma senza approfondimenti e nemmeno grandi coup de théâtre. Manca, per di più, nel lavoro con il concertatore quell'esatta corrispondenza fra gesto musicale e teatrale che in partiture come questa è imprescindibile e rimane, invece, nell'approssimazione.

Su cosa punta, dunque, questa Tosca? Sulle voci, ovvio, e sfodera grandi calibri, anche se note e volume non sono di per sé teatro e dramma, se il canto di conversazione pucciniano esige una plasticità espressiva e musicale che va ben oltre lo sfoggio di mezzi opulenti. Così, la palma del migliore va al Sagrestano di Nicolò Ceriani: canto sano, sonoro, timbro giusto, né senescente né troppo brillante, ma soprattutto tutto concentrato sulla parola e il senso, mai macchiettistico, di quel che va dicendo. Maria José Siri è una protagonista solida, cui difetta un po' di sensualità nel porgere e malìa nel timbro, ma impeccabile per tenuta in tutta la tessitura e presenza di suono in tutta la serata. Cresce sensibilmente nell'ultimo atto, così come Roberto Aronica, che parte con un'emissione un po' fibrosa, ma si rinfranca fino a un epilogo del tutto convincente e a un appassionato addio alla vita. Chi invece proprio non funziona è lo Scarpia di Erwin Schrott, che esibisce subito il suo biglietto da visita con un tonante, infinito “Un tal baccano in chiesa”. Ecco tutte lì le carte che ha da giocare: volume e colore, senz'altro baciati dalla natura. Non bastano però a fare il personaggio e non solo perché l'energia cala nel corso del secondo atto: il solfeggio è arbitrario, il fraseggio frammentato e schematico, il testo sovente pasticciato e alterato con nonchalance. Fatte salve l'imponenza fisica e sonora, il fascino diabolico del barone non è pervenuto.

Completano la locandina il veterano Spoletta di Bruno Lazzaretti, l'Angelotti di Christian Barone, lo Sciarrone di Tong Liu, il Carceriere di Raffaele Costantini e il Pastorello di Francesca Pucci. I cori preparati da Gea Garatti Ansini (adulti) e da Alhambra Superchi (voci bianche) si fanno apprezzare nonostante i limiti della concertazione e dell'emergenza sanitaria.

Tosca è sempre Tosca. Le voci c'erano, la scena era maestosa e innocua, la voglia di opera tanta: il successo è grande e caloroso.


 

 

 
 
 

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