L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Confusi e stupidi al Cabaret

di Roberta Pedrotti

Debutta finalmente con un cast di giovani e la direzione di Ferdinando Sulla la produzione dell'Italiana in Algeri a firma di Cecilia Ligorio, programmata per la Rete lirica marchigiana ancora nel marzo del 2020. Si festeggia il ritorno a teatro, anche se delude soprattutto la regia.

FANO, 5 febbraio 2022 - Febbraio 2020, nelle Marche si prova L'italiana in Algeri; deve andare in scena all'inizio di marzo, ideale prosecuzione delle celebrazioni del compleanno di Rossini, che nell'anno bisestile si onora in pompa magna. Quel che successe in quei giorni lo ricordiamo tutti, o almeno dovremmo.

Febbraio 2022, dopo ventitré mesi esatti e con qualche variazione in locandina al Teatro della Fortuna di Fano va finalmente in scena L'italiana in Algeri. E a pochi, pochissimi chilometri dalla casa natale del compositore si festeggia e si brinda alla prossima (non)ricorrenza: buon compleanno, Gioachino! Ripartiamo da dove ci eravamo fermati e, nonostante qualche manipolo di idioti dalla memoria corta e dalle competenze scientifiche inversamente proporzionali alla presunzione, cerchiamo di andare avanti.

Non sarà proprio la produzione del secolo, nemmeno del decennio, né dell'anno, ma siamo felici di averla vista arrivare infine di fronte al pubblico per tutti coloro che ci hanno lavorato, per una regione che pullula di teatri da scoprire e far vivere - e sia benedetta la costituzione della Rete Lirica Marchigiana. La sala è piena e già questo è un bel risultato.

Purtroppo, se dobbiamo entrare nel merito della serata, qualche riserva va però avanzata. D'altronde, fa parte del gioco del ritorno alla normalità: il teatro vivo è quello che si discute; si lavora, si presenta lo spettacolo al pubblico, può funzionare o meno.

Quello di Cecilia Ligorio (scene di Gregorio Zurla, costumi di Vera Pierantoni Giua) è uno spettacolo che non funziona. Non sarebbe un problema di per sé il collaudato meccanismo metateatrale, né la ricollocazione nel mondo del cabaret anni '30. Il problema si pone se per renderlo credibile ci si arrampica sugli specchi mettendo i recitativi su un letto di Procuste che non bada a rime, metrica e logica (passi che, non trovandoci in Oriente, si elimini il riferimento alla legge di Maometto e si amputi la rima pasticcio/capriccio, ma che Taddeo annunci “e adesso con un nome secondo...” senza aver riferito il primo “nome di compagno” non ha davvero senso). E, tuttavia, il gioco non riesce nemmeno così, perché le forzature logiche son troppe (perché un teatro deve avere schiavi italiani impossibilitati a partire, per esempio?) e quando se ne perde filo e conto il cabaret ormai si è ridotto ad avanspettacolo circense nella peggior accezione del termine (niente Fellini, niente Risate di gioia, insomma). Ligorio, poi, aggiunge un personaggio, l'Impresario incarnato dal pur bravo attore Simone Tangolo, la cui (onni)presenza è un inutile ingombro scenico che ci fa solo desiderare che se ne vada presto o quantomeno interrompa quel prolisso prologo e si astenga dall'irrompere nei recitativi con insulse precisazioni.

In una costruzione dei personaggi quanto mai labile, un cast giovane – per lo più proveniente dall'Accademia rossiniana di Pesaro – non trova grandi coordinate per emergere, anzi, talora non è nemmeno chiaro chi parli di cosa con chi (“osservate quel vestito” sarebbe l'abito di Isabella, ma qui sembra quasi la tutina di Taddeo). Lo si vede già con Francesca Di Sauro: canta bene tutto quel che deve cantare con voce ben impostata, legato morbido e dizione chiara, ma fatica a dar carattere e carisma a questa Isabella che non si sa donde venga e dove vada, si veste da catwoman sadomaso e si trova le grandi scene di seduzione (“Per lui che adoro”) e persuasione oratoria (“Pensa alla patria”) sbiadite o ridicolizzate. Sembra quasi che Ligorio sia più interessata alla soubrette in disgrazia Elvira (Lara Lagni), affiancata dalla fida e dimessa Zulma, Mariangela Marini. Parimenti, Nicolò Donini è un Mustafà musicalmente corretto, molto impegnato sulla scena, ma penalizzato da una caratterizzazione indefinita. Si fanno, viceversa notare, le altre voci gravi maschili: Pablo Galvez era stato scritturato due anni fa come Haly, ma già nel 2018 a Bologna era stato un promettente Taddeo e oggi il suo capitano dei corsari sembra prontissimo a passare definitivamente al rango di protagonista. Intanto, però, nei panni dello spasimante di Isabella c'è Ramiro Maturana, che fa assai bene per emissione, dizione e intenzione e s'impegna pure a essere credibile nell'improbabile mise in cui viene inguainato da kaimakan.

Note dolenti vengono, invece, da Shanul Sharma, voce pallida e impari alle difficoltà di Lindoro, la cui tessitura sembra più raggiunta per spinta e natura che dominata per tecnica. Spiacerebbe sempre quando nel secondo atto si opta per la non rossiniana “Ah come il cor di giubilo” invece di “Concedi amor pietoso” (il caso è simillimo a quello dell'aria di Alidoro nella Cenerentola: pezzo abbordabile affidato a un collaboratore per la prima, intervento successivo di Rossini con una pagina di grande spolvero per un nuovo interprete di vaglia), tuttavia la resa non ci fa rimpiangere la scelta del pezzo meno impegnativo. Ferdinando Sulla, d'altra parte, prima ancora che come direttore si è fatto conoscere come studioso e musicologo: passione e competenza sono fuori discussione e siamo certi che anche la realizzazione dei recitativi al solo cembalo (brava Claudia Foresi) sia stata dettata da mera necessità pratica. Senza bacchetta, Sulla punta a un suono morbido, a un sostegno del canto che non vuole essere passivo accompagnamento, ma cerca pure un rubato non meccanico, accenti vivaci, tempi vispi. Piace, insomma, la sua idea di Rossini, anche se poi non tutto si concretizza in perfetta sintonia con l'Orchestra Sinfonica G. Rossini e il cast volenteroso appare viepiù tarpato nel volo dall'insipienza registica. Fatto sta che talora si gode d'un comune sentire d'amor rossiniano, talaltra si percepisce un certo affanno per qualche scatto agogico o per qualche passaggio non proprio a fuoco (il corno non è in gran serata). Forse c'è ancora un po' di ruggine da ripulire, ma l'importante è che la macchina sia ripartita, che Rossini sia tornato a risuonare al Teatro della Fortuna (che ritrova in scena anche il suo coro, ben preparato da Mirca Rosciani), il pubblico a commentare e applaudire, che i valori si possano riconfermare con risultati sempre migliori, i limiti  limati e superati, guardando sempre avanti.

Fra un verdicchio, un fritto e una moretta fanese, allora: ad maiora, sempre e comunque viva Rossini!


 

 

 
 
 

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