L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Se per vincere basta piacere

di Sergio Albertini

Il Teatro Lirico di Cagliari punta sul sicuro con un allestimento iper tradizionale di un'opera popolarissima e sempre accattivante. Il risultato è godibile, ma non molto di più.

CAGLIARI, 6 marzo 2022 - Sembra facile, vincere con L'elisir d'amore. La storia, semplice, è facile da seguire. La musica è bella, accattivante. E poi, c'è sempre la romanza famosa, quella "Furtiva lacrima" che fa accendere i telefonini alle vecchie signore delle prime file per registrare e riprendere. Infischiandosene di privacy, di diritti d'autore, dei divieti annunciati ad inizio serata.

Sembra facile, vincere con L'elisir d'amore. Basta rilasciare qualche intervista, approntare qualche nota di regia che parli di “malincomico”, il pubblico, si sa, a volte è facilmente suggestionabile. “Petaloso” docet.

Sembra facile, vincere con L'elisir d'amore. Basta ricreare un ambiente contadino, bucolico, dichiarare che “basta con gli stravolgimenti” (magari riferimenti a Nemorino che arriva in bici, Adina proprietaria di uno stabilimento balneare, altalene, riferimenti a Fellini, insomma tutte quelle “orrende cose da regia moderna!”), avere il giusto numero di blogger che amplificano queste dichiarazioni, ed è fatto.

Invece no. Non è facile vincere con L'elisir d'amore. Il Lirico di Cagliari ci riprova, recuperando una propria produzione andata in scena la prima volta nel 2009 (Rancatore, Abelo, de Candia, de Simone, dir. Fogliani), ripresa nel 2015 (Bruera, Liberatore, Olivieri, De Simone, dir. Carminati). In tempi di magra, operazione corretta. Si risparmia su nuove produzioni, si offre (ad un pubblico post-pandemia forse pigro, forse demotivato) un'opera quasi 'popolare'. Ed in effetti la sala (non ancora del tutto piena) inizia ad arricchirsi di (vecchie) presenze. Spettacolo godibile all'occhio, innanzi tutto. Difficile tirar qualche nuova interpretazione, per buona pace di chi teme i lunghi impermeabili neri, i soldati da Terzo Reich, contadine con tette nude: si torna all'antico. Il rassicurante antico, ideale proprio per un pubblico pigro, a cui è negata persino un'opera di Haendel !

Ammettiamolo. Se taciamo di quel faro di luce a forma di cuore proiettato sul sipario chiuso, e i due figuranti che fan capolino, gran parte del successo dello spettacolo è da addebitare alle scene e ai costumi firmati a due mani da Alida Cappellini e Giovanni Licheri. Domina un praticabile in pendenza a due rampe in legno chiaro il cui bordo è piacevolmente realizzato da spighe di grano e rossi papaveri. Tutta la scena è incorniciata da una struttura i legno che da una parte evoca un vecchio mulino e dall'altra da una ruota (a volte gira, a volte no), ingenuamente adagiata su una fonte di luce azzurra, a suggerir acqua che scorre. Costumi chiari, luminosi, con fantasie floreali (e rossi, ardenti di desideri e passioni represse, per il secondo atto). Di bell'effetto la scena del villaggio, con gli interni delle case a vista, soprattutto nella dimensione notturna, con le lanterne dentro gli appartamenti (le luci, spesso intense e piatte per gran parte dell'opera, erano disegnate da Franco Angelo Ferrari, riprese da Andrea Ledda). Naïf, ma in tema con l'aspetto visivo, le silhouette dei soldati che scendono dall'alto, e il viaggio, impercettibile, del disco lunare sullo sfondo. In tutto questo, però si inseriva la regia di Michele Mirabella. Che si ricorda soprattutto per quel travestito, esagitato fino al parossismo, che ora fa il bucato, ora si annoia nel suo monolocale, ora si scoscia in una danza frenetica: una macchietta che scivola sovente nel patetico. Per il resto, azioni non pervenute. È vero, c'è una scaletta a pioli sulla sinistra della scena; ci sale (senza alcuna ragione) un corista, poi su alcuni pioli si agita Adina. La scena, fortemente occupata dalla pedana a zig zag, si affolla di comparse, coriste e coristi, immobili, statici. Qui e là qualche passo di danza ingenuo, ma per il resto uno spettacolo che sa di vecchio. Eppure piace.

Roberto Gianola ha disposto i legni a sinistra, gli ottoni a destra, gli archi di fronte. Dalla fossa esce un suono netto, ben distinto in ogni sua sezione, perfettamente calibrato nei volumi. Sin dal preludio, le variazioni ornamentali di flauto ed oboe emergono nette, morbide; meno, il languore del fagotto nell'introduzione alla romanza di Nemorino. È un'orchestra vivace, brillante, che non cerca – un po' come lo spettacolo di Mirabella – nessun approfondimento, che ha come puro scopo quello di “piacere”. Su palcoscenico, innanzi tutto lode al coro – preparato da Giovanni Andreoli – che, ad onta delle indispensabili mascherine, mantiene intensità e coesione in ogni sua sezione. Martina Gresia, Adina, sostituisce l'indisposta Ekaterina Bakanova; il giovane soprano, che aveva debuttato nella parte lo scorso autunno al Petruzzelli, ha voce piena, solida, si destreggia bene nel registro acuto, ma tende a un costante mezzoforte; più articolata la dinamica del Nemorino di David Astorga, che al materiale vocale di un lirico leggero associa un timbro ricco di screziature brunite. L'uso di un suono misto, tra il piano e il falsetto, è interessante, ma il personaggio (frutto delle scelte registiche di Mirabella) tende a evidenziare un paesano sempliciotto, anche troppo. Il Belcore di Leon Kim colpisce per la spavalderia scenica financo eccessiva, per una voce ben proiettata, baritonale della miglior specie; purtroppo, forse per esasperare certo tono spaccone, il fraseggio è pieno di accenti, di spinte nel suono che ne inficiano alla fine le pur belle qualità. Il Dulcamara di Giulio Mastrototaro è compitato invece senza eccessi, con sillabati ben 'scolpiti'; nuoce forse anche qui la scelta di Mirabella di farne una sorta di Doc Brown di Robert Zemeckis (vedi alla voce: Ritorno al futuro), con tanto di insostenibili odalische che, durante la sua aria, ai due estremi della scena realizzano una estenuante danza del ventre, e due cinesi (in versione Jack Sparrow) tentano acrobazie con una bottiglia. La Giannetta, perfetta, è Manuela Cucuccio.

Breve nota: alla terza recita, il programma di sala (come per le precedenti rappresentazioni) non era ancora disponibile.

 


 

 

 
 
 

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