L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il quinto Vivaldi

di Francesco Lora

Al Teatro La Fenice è il turno di Griselda, con l’esperta lettura musicale di Diego Fasolis e quella teatrale – meno condivisibile – di Gianluca Falaschi. Nel canto, i signori si fanno bagnare il naso dalle signore: Ann Hallenberg, Michela Antenucci e Rosa Bove (ma il controtenore Kangmin Justin Kim sa tallonarle).

VENEZIA, 29 aprile 2022 – Vivaldi non ci avrebbe creduto. Durante le stagioni della Fenice, da un lustro, è abitudine allestire una sua opera nel teatro oggi intitolato a Maria Malibràn; nel Sei-Settecento, però, quello era il S. Giovanni Grisostomo, il più lussuoso di Venezia, che don Antonio non arrivò mai a calcare: dovette limitarsi alle scene secondarie del S. Angelo e del S. Samuele. In quest’ultima sala, nel 1735, vide la luce Griselda, su un libretto di Apostolo Zeno raffazzonato da Carlo Goldoni, mentre al Malibràn, dal 29 aprile all’8 maggio, è appena stata proposta la stessa opera, in un nuovo allestimento con regìa, scene e costumi di Gianluca Falaschi. Al di là del momento trinitario, questi rimane un eccelso costumista, uno scenografo ferrato e un regista in erba. Attua una trasposizione dall’antichità fiabesca a uno spazio e un tempo, contemporanei, che non si afferra quali vorrebbero essere e cosa dovrebbero significare. Ci sono lusinghieri ammicchi ecologisti: la campagna boscosa dove si è ritirata la protagonista, sposa fintamente ripudiata del re Gualtiero e tornata a essere pastorella, è via via ridotta a una penosa discarica d’immondizia. Griselda, però, non tratta di questioni ambientali. Si condanna, poi, la violenza sulle donne: in questa lettura registica abbondano visivamente gli abusi del maschio oppressore sulla femmina fatta oggetto. L’argomento di Griselda, però, significa l’opposto. Grave è dunque non comprenderlo e non spiegare al pubblico la morale della fiaba di Boccaccio e l’intreccio nella riscrittura di Zeno. Nel Decameron il sadismo c’è, per illustrare tuttavia – nel Trecento! – come una pastorella possa superare con la sua dignità la più nobile e altezzosa delle dame nonché il più potente e arrogante dei re. Nel libretto settecentesco, invece, la violenza è solo simulata, per prova, da Gualtiero, che in verità vigila sulla salvezza della sposa, affinché il popolo cessi di disprezzare lei e la prole e la riconosca degna del trono. Per fare uno spettacolo alla moda, nel 2022, temi attuali o sottili, firmati da Boccaccio, Zeno e Goldoni, finiscono viceversa anch’essi nella discarica, senza speranza d’ecologia teatrale.

La concertazione delle opere vivaldiane, alla Fenice, è ormai un’esclusiva di Diego Fasolis, che a Venezia ha già diretto Orlando nel 2018, Dorilla in Tempe nel ’19, Ottone in villa nel ’20 e Farnace nel ’21. La lettura di Griselda compie la cinquina nel modo migliore, soprattutto grazie al ritrovato rispetto della partitura, dopo le spudorate manomissioni inferte certe altre volte. Il passo musicale risulta deciso e incisivo, i recitativi sono accurati in ritmo e sostegno, le variazioni sono coordinate con gusto. Gusto che invece sa di cringe quando, finita la prima aria alla prima recita, il direttore si volta a redarguire il pubblico, reo di non aver applaudito il tenore Jorge Navarro Colorado, assai incerto nell’autorevole caratterizzazione, nella pronuncia italiana e nella nitida vocalizzazione della parte di Gualtiero (a lui va un applausetto svogliato, peggiore del precedente silenzio). Il ruolo della prima donna, nelle opere vivaldiane, spettò quasi sempre alla musa Anna Girò, la quale non era una grande virtuosa ma conosceva l’arte di recitare, deliziare e commuovere; al Malibràn ci si è arrischiati lungo la via contraria: per la parte di Griselda è stata scritturata la grande virtuosa Ann Hallenberg, che non può esibire prodezze in arie di stile espressivo e di scarsa estensione, e che nel contempo difetta d’idiomatica vividezza timbrica e sciolta retorica: conserva invece sempre la misura, l’eleganza, il portamento dell’artista di vaglia. La più disinvolta in campo si afferma nondimeno Michela Antenucci, la cui parte di Costanza e il cui ruolo di seconda donna furono concepiti per Margherita Giacomazzi, una funambola del pentagramma capace d’indossare le arie di Farinelli: il giovane soprano non solo espugna la celebre «Agitata da due venti», ma la varia con aumentata spericolatezza e fa valere nel resto dell’opera una fresca naturalezza di porgere. La nuova generazione di controtenori, rappresentata da Kangmin Justin Kim quale Ottone, dà filo da torcere alla mezzana, rappresentata da Antonio Giovannini quale Roberto. Ma meglio di tutto è ricorrere ai più rosei, sugosi, franchi mezzi di una signora: lo dimostra, come Corrado, Rosa Bove.


 

 

 
 
 

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