L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Più Roméo che Juliette

di Francesco Lora

Le compagini del Maggio Musicale Fiorentino, dirette da Nánási, si impongono per prime nell’opera di Gounod. Sempre notevole Flórez, benché le caratteristiche dell’interprete e della parte concordino a fatica. Meno adeguata, al suo fianco, un’artista di non comparabile caratura qual è Valentina Naforniţă.

FIRENZE, 8 maggio 2022 – All’LXXXIV Maggio Musicale Fiorentino, Roméo et Juliette di Charles Gounod, in cinque recite dal 27 aprile al 10 maggio, ha avuto per protagonisti soprattutto l’orchestra e il coro, sgargiante e metallica la prima, teporoso e colorito l’altro. Quanto al concertatore, Henrik Nánási, musicista con lusinghiera attività internazionale ma poco integrato nel circuito italiano, non è uno di quei narratori atti a rivelare i più intimi segreti testuali di un’opera soggetta all’inflazione della sua stessa fama, ma ha tecnica direttoriale e sa come si tiene la guida di cilindrate grosse, partiture o compagini che siano. Dunque, non benissimissimo, ma senz’altro benone. Chi invece deve starsene stretto per forza di cose, o forse sta bene riparato nella sua sospetta agorafobia, è il regista Frederic Wake-Walker e chi ha firmato con lui questo nuovo allestimento: Polina Liefers per le scene, Julia Katharina Berndt per i costumi, Peter Mumford per le luci, Ergo Phizmiz per i video e Anna Olkhovaya per la coreografia. Il fatto è che tutte le produzioni operistiche del MMF sono attualmente dirottate dalla grande sala teatrale all’auditorium, capiente nella platea ma non dotato di un palcoscenico altrettanto vasto e attrezzato. Si assiste, così, a una lettura teatrale assai leggera nelle strutture ma senza per questo guadagnare spessore nelle idee: i costumi sono quelli di una tragedia shakespeariana secondo oleografia Liebig, le scene sono ridotte a stilizzati praticabili che suggeriscono portici e corridoi, le luci sanno di freddi neon e i proiettori fanno imbarazzanti capricci tecnici, mentre la presenza di dieci danzatori si scontra con la paradossale potatura del balletto. Meglio tornare a parlare di musica.

Non protagonista totale, ma comunque punta di diamante della locandina – e trionfatore annunciato a ogni recita – rimane nondimeno Juan Diego Flórez, nella parte di Roméo. Il discorso è delicato. Dopo vent’anni di carriera all’insegna del repertorio rossiniano, donizettiano e belliniano, il celebre tenore ha individuato altri lidi sia per volontà intellettuale d’ampliare gli orizzonti di repertorio, sia per necessità d’assecondare la naturale evoluzione vocale. Ecco, allora, i precedenti cavalli di battaglia pian piano sostituiti da parecchio secondo Romanticismo francese: il Massenet di Manon e Werther, l’Offenbach dei Contes d’Hoffmann, il Gounod di Faust e appunto Roméo et Juliette. La natura canora di Flórez, però, rimane quella di un calibro lirico-leggero, brillante ed espansivo, portato a esplodere gli acuti a voce piena e a proprio agio in tessiture acute, cioè non in tessiture centrali ove le singole note acute siano picchi da ostentare anziché passi ordinari lungo il cammino. Roméo et Juliette ricade nel secondo campo, e richiederebbe, appunto e inoltre, un baricentro estensivo più grave, un carattere più introverso, un colore meno nemorinesco, un accento più drammatico, acuti non importa tanto se timbrati e squillanti quanto, piuttosto, passibili di smorzatura.

Le pulci – ovvio – ha senso farle perché il cantante in oggetto è di prima sfera e merita il microscopio. Un inferiore numero di parole dovrebbe invece bastare per riferire della Juliette di Valentina Naforniţă, artista degna di simpatia finché il suo ruolo era quello di soprano-utilité della Staatsoper di Vienna, ma il cui lancio da diva oltre l’àmbito e la tolleranza della Mitteleuropa ha poco margine di attendibilità: ad onta di una notevole proiezione, che corre fino al fondo della sala, il timbro e la vocalizzazione restano comuni, l’estensione ha chiari limiti agli estremi richiesti, l’intonazione si approssima in passi esposti, il fraseggio ha una retorica senza rilevato carisma, l’arte scenica patisce la contiguità di ben più aggraziate danzatrici. Di qualità, infine, è la lunga serie degli altri cantanti, i quali ricadono quasi sistematicamente non già nella sbrigativa categoria dei comprimarii, ma in quella delicata dei caratteristi, sovente investita di raffinati couplets. Si tratta, soprattutto, di Francesco Milanese come pomposo Capulet, di Evgeny Stavinsky come pacato Frère Laurent, di Giorgio Misseri come svettante Tybalt, di Alessio Arduini come esuberante Mercutio, di Adriano Gramigni come solenne Duca di Verona e della vivace Xenia Tziouvaras come Getrude. Menzione d’onore per Vasilisa Berzhanskaya, belcantista di qualità eccelsa per verve e virtuosismo, qui impegnata come Stéphano di gradito lusso: la si vede entrare in scena e subito si coglie che qualcosa d’importante sta per essere servito all’orecchio esigente del melomane. Meriterebbe dunque uno spazio prioritario in questo più antico festival italiano, magari rinfrescando anche l’originale vocazione di esso al repertorio operistico raro.


 

 

 
 
 

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