L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ama chi ti pare

di Roberta Pedrotti

Torna con successo al Rof La gazzetta nell'allestimento di Marco Carniti, sotto la direzione di un Carlo Rizzi in gran forma. Nel cast completamente rinnovato spiccano Carlo Lepore e Giorgio Caoduro.

PESARO, 10 agosto 2022 - La ricerca musicologica, per fortuna, può dare ancora delle sorprese. All'inizio del secolo, il Rossini Opera Festival si rassegna a proporre La gazzetta nonostante nelle fonti manchi il quintetto centrale del primo atto, fondamentale, peraltro, per lo sviluppo e la comprensione della trama. Si affidò l'incarico di metterla in scena a Dario Fo, che integrò la lacuna con una tammurriata di sua creazione e firmò uno spettacolo dai tratti onirici e surreali in una cornice Belle époque. Arrivò, poi, la sorpresa: il quintetto perduto si ritrovò, grazie anche a Philip Gossett (tanto che si riuscì temporaneamente a superare anche lo strappo già avvenuto fra lui e Alberto Zedda con conseguente scissione di musicologi ed edizioni critiche). S'imponevano il ritorno del titolo in cartellone e la nuova produzione, che porta la firma di Marco Carniti, è essenziale, quasi minimale nell'apparato scenico, concretissima nella cura della recitazione e della drammaturgia. Lo notiamo anche oggi, in una ripresa che calza come un guanto anche a una compagnia completamente rinnovata, cambia ma rimane fedele a sé stessa per adeguarsi al ritmo della narrazione e raccontare la vicenda, su fonte diretta goldoniana, di un gruppo di giovani che combatte in ogni modo per vivere la propria vita e i propri amori a dispetto dei piani dei genitori. Conflitto sociale e generazionale vecchio come l'idea stessa di commedia, ma non per questo meno attuale, come ben sottolinea Carniti anche solo con il semplice uso dei colori: la scena (Manuela Gasperoni) è neutra, i costumi (Maria Filippi) inizialmente in bianco e nero, ma via via che l'azione procede le luci variopinte di Fabio Rossi prendono il sopravvento, gli abiti si fanno sgargianti. Quando, in un momento clou del secondo atto, Lisetta proclama la sua ribellione al padre e sostiene il suo diritto ad amare chi le pare, il factotum Tommasino (al secolo Ernesto Lama, da libretto il servitore di Don Pomponio) procura e sventola bandiere arcobaleno, La libertà di essere ciò che si è e di amare chi si ama dovrebbe è questione eterna che dovrebbe in realtà riguardare tutti ed essere la cosa più naturale del mondo.

A garanzia del buon esito c'è anche l'affidabilissima bacchetta di Carlo Rizzi, che non si limita a fare il veterano in lungo corso, ma giostra bene assai l'articolazione di tempi e dinamiche, forte anche di un'Orchestra Sinfonica Rossini ben reattiva e in continua crescita. Un paio di sbavature non inficiano il risultato complessivo, vitale e parimenti attento a definire i rapporti anche stilistici fra i tanti temi e numeri che conosciamo magari più dalla Pietra del paragone, dal Turco in Italia e dal Barbiere di Siviglia (precedenti) o dalla Cenerentola (successiva). Si ribadisce così il concetto di un autoimprestito che è laboratorio poetico, non (solo) escamotage pratico, e non lo si ribadisce mai abbastanza.

Peccato, sempre sul piano ideale e di prassi, che per i recitativi non si abbini al fortepiano di Alessandro Benigni un violoncello, come sarebbe opportuno.

Sul palco si impongono le presenze di Carlo Lepore (Don Pomponio Storione) e di Giorgio Caoduro (Filippo), vale a dire del tipico basso parlante napoletano (il primo interprete fu nientemento che Carlo Casaccia) e del buffo cantante, nel linguaggio attuale un basso baritono brillante dalle eccelelnti qualità virtuosistiche. Da un lato, Lepore fa valere la sua disinvoltura di madrelingua partenopeo con tutta l'arguzia del vero artista, dall'altra non perde di vista il focus dell'emissione, sempre ben timbrata e controllata. Da parte sua, Caoduro è belcantista sopraffino, baritono dalla musicalità e dall'agilità impeccabili che ci ricorda come cantar bene significhi pure interpretare e far intendere ogni parola anche nella rapidità e nella coloratura.

Pietro Adaìni è un Alberto convincente, che si riprende subito, nella sua aria, da qualche suono non perfettamente a fuoco, per un bilancio finale più che positivo e una recita in crescita.

Delude, invece, purtroppo la Lisetta di Maria Grazia Schiavo, che nonostante la ben nota musicalità, incappa qualche suono fisso o teso di troppo, qualche coloratura non ben sgranata e appoggiata. Meglio, sebbene le parti siano meno estese, la Madama La Rose dalla voce luminosa di Andrea Niño e la Doralice temperamentosa di Martiniana Antoine. Alejandro Baliñas come Anselmo, Pablo Gàlvez come Monsù Traversen e il coro del Teatro della Fortuna preparato da Mirca Rosciani completano la locandina.

E alla fine si esce dal Teatro Rossini con il sorriso sulle labbra. La semplicità, gran pregio.


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