Bentornato, Rossini
di Roberta Pedrotti
Grande e meritato successo per Il barbiere di Siviglia allo Sferisterio di Macerata, in una produzione affiatatissima nel coniugare esperienza e nuove generazioni nel segno della qualità e della complicità.
MACERATA, 12 agosto 2022 - Rossini allo Sferisterio di Macerata, tre settimane dall’inaugurazione per arrivare all’ultima prima operistica in programma. La pazienza, però, è stata ben ripagata nell’entusiasmo di platea, gradinate, palchi e loggione stipati come non si vedeva da anni: un autentico tutto esaurito, finalmente.
Qualche testata locale ha giocato a inventare sciocche rivalità di campanile (tanto più risibili se si guarda a un cast fitto di habitué pesaresi, ex allievi dell’Accademia Rossiniana, se si pensa che a Pesaro non hanno che da gongolare se si diffonde un Rossini di qualità) subito arginate dalle belle dichiarazioni del direttore generale del Rof Cristian Della Chiara, mentre a noi piace di più giocare al tout se tient con Umberto Eco: festeggia i trent’anni di carriera Andrea Concetti, per esempio, che nel 1992 debuttò proprio allo Sferisterio; ventisette anni fa Roberto De Candia cantava qui il suo primo Figaro e ora replica con il suo primo Bartolo mentre in quegli stessi giorni del 1995 il direttore Alessandro Bonato non aveva ancora cinque mesi. Già, è un Barbiere, questo, che valorizza l’esperienza ma punta anche sulle nuove generazioni. Un Barbiere fresco, giovane di spirito e saldissimo per qualità artistiche e professionali. La dedica a Graham Vick, coltissimo, preparatissimo, indefesso lavoratore e mente sempre aperta a discussioni e volta al futuro, non potrebbe essere più azzeccata. D’altra parte, fu proprio il mai abbastanza compianto regista britannico a presiedere la giuria che due anni fa, sotto altra dirigenza, scelse il progetto teatrale che ora ha riportato Il barbiere di Siviglia allo Sferisterio (e, sempre all’insegna del tout se tient, in commissione sedeva anche Ernesto Palacio, Almaviva a Macerata nel 1980 e oggi sovrintendente del Rof, che collabora alla produzione). La regia è firmata da Daniele Menghini, che dopo il concorso sarebbe diventato l’ultimo assistente di Vick, con le scene di Davide Signorini, i costumi di Nika Campisi, i video di Stefano Teodori e le luci di Simone De Angelis.
L’azione è collocata ai nostri giorni, in uno studio televisivo in cui registrazioni, dirette e dietro le quinte si mescolano continuamente. Non mancano gli spunti per gag e controscene, ma non si tratta di meri pretesti per stordire il pubblico con risate facili. Già l’introduzione recitata è un piccolo omaggio alla celebre diretta televisiva del Barbiere maceratese del 1980 (compresa la papera dell’annunciatrice che ripete “Sferisferio”): nulla è per caso. Alla base c’è il rapporto fra realtà e finzione, ci sono dichiarazioni pubbliche, luccicanti involucri, ricatti, pressioni, scorrettezze: insomma, tutto quello che troviamo nella perfida commedia di Beaumarchais come nell’abbagliante ambiguità di Rossini e Sterbini, che lanciano alla ribalta le velleità di deus ex machina e di autodeterminazione di Figaro e Rosina, mentre il vero nodo è il gioco di potere fra Bartolo e Almaviva, divertito nel suo giro di travestimenti. Infatti, i personaggi sono tutti ben definiti nei loro rapporti e nelle loro caratterizzazioni musicali. Ruzil Gatin, conte d’Almaviva, è bravissimo nell’alternare la gelida spocchia del potente che non deve chiedere mai con il mascheramento divertito da giovanotto intrufolatosi negli studi per conoscere la giovane diva di cui si è innamorato (ma che in realtà considera più che altro un trofeo). È chiaro allora che Don Bartolo (Roberto De Candia) non è un vecchio arcigno da beffare, ma è un pezzo grosso – medico specializzato in botox, ma anche produttore, presentatore, eminenza grigia nel network – che può fare il bello e il cattivo tempo, temendo solo, appunto, l’intervento di un pezzo più grosso di lui. Rosina (Serena Malfi) non può che trovarsi in loro balia: carattere volitivo e intraprendente, non è nella condizione di reagire, sembra condannata alla passività nelle vesti di protagonista di un’improbabilissima fiction in costume dal titolo L’inutil precauzione, un incrocio fra Gli occhi del cuore e Sensualità a corte. Tuttavia, alla fine, saprà prendersi la sua rivincita e riscattarsi dal ruolo di moglie trofeo con una spettacolare fuga dallo Sferisterio. Nondimeno, Figaro (Alessandro Luongo), hairstylist che ha conquistato popolarità televisiva e si gode la fama di divo del momento, si dà da fare con tutto l’istrionismo - e il poco reale costrutto – che musica e libretto esigono. Fra di loro si muove, indaffarato e inconcludente, sempre con il cellulare in mano ma “senza un quattrino”, l’irresistibile Don Basilio di Andrea Concetti, bizzarro cantante dark alternativo diversamente giovane che indossa abiti d’ispirazione talare (ed ecco che si accontenta la tradizione che vorrebbe il maestro di musica in vesti religiose, ma si sottolinea anche che così, in realtà, nel libretto non è). Il rapporto fra tradizione e attualità è tenuto vivo anche dalla presenza di un Ambrogio (Mauro Milone) che è uno sconcertato Zanni catapultato negli studi televisivi in mezzo ad altri curiosi personaggi, fra cui Berta (Fiammetta Tofoni, seconda donna in quanto coprotagonista di L’inutil precauzione) e Fiorello (William Corrò, disinvolto assistente sul set).
C’è davvero tanto in scena, succedono molte cose, lo spettacolo è ricchissimo di dettagli che non entrano mai in contraddizione e non sciupano la continuità e la coerenza del racconto. Anzi, danno la chiara idea che tutti sul palco si divertano e siano felici di interagire, trasmettendo la stessa impressione dal pubblico. E se si dice palco, si deve però intendere anche buca e podio, ché se lo spettacolo funziona e infiamma lo Sferisterio anche in una serata dal clima decisamente freschetto è grazie al bel gioco di squadra fra tutti gli artisti e in primis fra la direzione teatrale di Menghini e quella musicale di Bonato. Questi arriva finalmente a concertare un’opera con la sua Filarmonica Marchigiana, l’orchestra di cui è direttore principale da due anni e con cui ha affrontato un vasto repertorio sinfonico. L’opera all’aperto, però, è altra cosa, altra difficoltà, specie se si tratta di un titolo ancor più delicato del solito: popolarissimo, quasi abusato, ma non certo il più adatto sulla carta alle arene estive. Non c’è cimento migliore per saggiare la predisposizione e il potenziale teatrale del maestro veronese, che offre un’altra splendida prova di sé. Non solo gestisce gli spazi con una padronanza che non sempre si riscontra in colleghi di maggior esperienza, ma sta meravigliosamente al gioco scenico sia partecipando alle gag in prima persona, sia muovendosi in perfetta complicità con l’azione teatrale. Tutto senza sconti sul piano della qualità musicale e della finezza dei dettagli. Anzi, questo è un Barbiere che si fa notare proprio per la naturalezza con cui non fa nulla per farsi notare né dà nulla per scontato: nessuna appariscente corsa a perdifiato, nessun accelerando o vezzo di tradizione, nulla che non abbia una ragione drammaturgica e musicale. I tempi sono tutti dettati dalla logica della partitura e dalla necessità di articolare note e parole. Lo si ammira, per esempio ma non solo, in “A un dottor della mia sorte”, in cui Roberto De Candia ha modo di dipanare l’olimpica calma di chi sa di avere il potere assoluto e di poter imporre a Rosina il proprio volere senza per questo scadere nel pesante o nel pomposo.
Sembra quasi che si tenda un arco in cui l’agogica più distesa del primo atto – dominato dalle arie – si serra via via nei concertati a partire dal finale centrale, con una ponderata gradualità sempre al servizio dell‘opera. La cura del suono orchestrale non fa rimpiangere l’esecuzione al chiuso se non per il desiderio di sentire ancor meglio e più da vicino come la morbidezza della Form sappia farsi anche scattante, sferzante alla bisogna, sappia asciugarsi in un “Quando mi sei vicina” a parti reali che sa davvero di musica d’altri tempi, ma soprattutto in un Temporale in cui l’articolazione dinamica e, qui sì, la mobilità dei tempi sortisce un effetto di fascinoso realismo (e si pensa alla Pastorale di Beethoven e al suo famoso invito a scriver solo Barbieri rivolto a Rossini). Sono molto curati, con un gioco di rimandi e citazioni che non stucca e non si fa didascalico, anche i recitativi, con il continuo affidato a un pianoforte simile a un fortepiano (lo suona Claudia Foresi e festeggiamo l’abolizione dell’improponibile clavinova sperimentato in passato) e a un violoncello (Marco Ferri), com’è giusto che sia. E, appunto giustamente, tutto non può che filare liscio, senza iato alcuno fra il ritmo teatrale e la resa musicale, un cast messo sempre a proprio perfetto agio, seguito e sollecitato come si conviene. Di De Candia, allievo di Sesto Bruscantini e quindi erede del genius loci, non si possono che ribadire meraviglie ma altrettanto vale per Concetti, davvero irresistibile, per Luongo, che trova in Figaro un personaggio davvero ideale, per Gatin, bel timbro fresco da amoroso ma competenza virtuosistica, pasta nobile e non esangue da vero protagonista. Serena Malfi ha una bellissima vocalità ambrata, duttile e fascinosa che si adatta sia alla malinconia sia all’energia di Rosina, Fiammetta Tofoni è un brillante contraltare con la sua Berta; Corrò, l’ottimo coro Bellini preparato da Martino Faggiani, tutti i figuranti, attori, danzatori si muovono con gusto e spirito, chi deve cantare è parimenti nitido, sapido, disinvolto anche di fronte alle inevitabili difficoltà che la coloratura rossiniana impone soprattutto all'aperto (ma cavillare su un suono imperfetto nei passi più scabrosi sarebbe ozioso perfino al chiuso in uno spettacolo di tale livello complessivo).
Si divertono, è chiaro, ed è inevitabile che facciano divertire anche noi. Buona, anzi, ottima la prima, con applausi esplosivi anche ben oltre la mezzanotte, anche da un pubblico che il clima avrebbe voluto intirizzito.