L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Casa Capuleti

di Giuseppe Guggino

Al Bellini di Catania I Capuleti e i Montecchi sono lo spettacolo di punta del Bellini International Context. Oltre alla buona prova dei complessi stabili, sotto la guida di Fabrizio Maria Carminati, si segnala l’ottimo debutto di Chiara Amarù come Romeo. Enigmatico lo spettacolo firmato da Gianluca Falaschi.

Catania, 23 settembre 2022 - Kermesse dalla fisionomia in progressivo assestamento di anno in anno, anche per tutto lo scorso settembre il Bellini International Context, nato dalla sinergia delle tre maggiori istituzioni musicali siciliane, è tornato a proporre incontri, spettacoli nonché a riempire di festose luminarie la città di Catania in onore del suo cigno. L’appuntamento di maggior rilievo era quello operistico, con I Capuleti e i Montecchi in forma scenica al Teatro Bellini di Catania, trasmessi in diretta tv da Rai5, per la direzione di Fabrizio Maria Carminati e Gianluca Falaschi a firmare unitariamente costumi, scene e regia, seppur coadiuvato da un nutrito team artistico.

Egregia la parte musicale che si avvale del Coro del Bellini di Catania, istruito da Luigi Petrozziello, e la buona Orchestra residente, sempre molto plausibile in terreno belliniano, con una particolare menzione per il poetico assolo del clarinetto che introduce il duetto Romeo-Tebaldo del secondo atto. Fabrizio Maria Carminati opta per una lettura molto fluida dal punto di vista agogico, respirando coi solisti e ottenendo una buona tenuta di insieme, eccezion fatta per qualche piccolo scollamento registrato nella stretta del duetto Giulietta-Romeo del primo atto o con la banda sul palco nel finale primo. L’adozione dell’edizione critica, eseguita in integrità totale, consente un buon lavoro su timbri e dinamiche, oltre a rendere praticabile al Romeo di Chiara Amarù “Deh! Tu, bell’anima” in Si bemolle, anziché in Do maggiore, così come trasportato da Bellini per la stessa Giuditta Grisi già nel 1830, nel passaggio dalle prime recite della Fenice alla ripresa scaligera. E con colore perlaceo il giovane mezzosoprano palermitano eccelle per legato ed espressività, pur a fronte di un debutto in una scrittura quanto mai impegnativa, per la quale dimostra di avere tutte le carte in regola. Sin dall’arioso di sortita si coglie il lavoro di cesello sugli accenti, sull’emissione, sul controllo di tutta la gamma, tanto negli affondi che nella regione acuta, molto sollecitata dalla scrittura belliniana. È quindi comprensibile l’apprensione che può aver indotto a limitare il volume e talvolta la spavalderia, a favore di una linea estremamente ben sorvegliata; ma c’è da attendersi che questo già notevolissimo Romeo, battezzato in terra belliniana, tornerà presto a farsi valere a buon diritto.

Molto sicura la Giulietta di Ruth Iniesta, di bella presenza scenica e vocalmente molto puntuale, persino troppo, nell’interpolare acuti non scritti (fino ad un fa) né per la verità indispensabili, manca forse di malìa timbrica, in una parte dalla scrittura eminentemente patetica (non a caso delle due arie di Giulietta una è priva di cabaletta, mentre la seconda ha una cabaletta non brillante).

Il timbro privilegiato di Marco Ciaponi e la duttilità del suo strumento contribuiscono a disegnare un Tebaldo molto convincente, sicuro, stilisticamente inappuntabile anche nelle variazioni, che ci si augura di riascoltare presto. Autorevole, infine, il Lorenzo di Guido Loconsolo e autoritario il truculento Capellio di Antonio Di Matteo.

Sin dalla sinfonia la scena – un decadente interno di palazzo ottocentesco, con persiane cascanti, vegetazione spontanea e muffa alle pareti – è abitata da Giulietta, tormentata da sinistre presenze (una governante, un prete) senza peraltro sembrare visibile agli occhi degli altri personaggi. Dei fantasmi? Forse. L’enigmatico lavoro drammaturgico si coniuga ad una realizzazione registica focalizzata sull’esasperazione delle nevrosi dei personaggi, tutta articolata sugli sguardi, verosimilmente pensata più in funzione della diretta televisiva che non per il palcoscenico. Che la contrapposizione fra guelfi e ghibellini diventi quella fra nobili (o forse borghesi) e la classe subalterna si chiarisce nel finale primo. Certo è che al compiersi del finale, in cui avviene anche uno sdoppiamento di “giuliette”, si ricava netta percezione di aver assistito ad uno spettacolo complesso, forse un po’ pretenzioso, che sarebbe necessario rivedere una seconda volta prima di potersi pronunciarsi definitivamente sul suo grado di compiutezza: un po’ la sensazione che dovette provare Rossini alle prese col Lohengrin wagneriano, secondo il piuttosto verosimile aneddoto tramandato al riguardo.


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