L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Mancare il bersaglio

di Luca Fialdini

Nella nuova produzione scaligera dei Vespri siciliani spiccano la direzione di Fabio Luisi e la presenza di un buon cast vocale, mentre l’ideazione scenica di Hugo de Ana fa parlare di occasione persa.

Leggi anche la recensione della prima Milano, I vespri siciliani, 28/01/2023

MILANO 21 febbraio 2023 – I Vespri verdiani (o meglio, Les vêpres) sono un titolo davvero strano, in bilico tra passato e futuro, tra Italia e Francia. È in tutto e per tutto un Grand Opéra ma allo stesso tempo anche un compendio dei punti chiave del melodramma italiano, l’orchestrazione non ha ancora pienamente interiorizzato la lezione dei compositori transalpini ma già si avvertono i primi risultati di una ricerca orientata in tal senso, l’opera è piena di ricordi e profumi del passato – in particolare si possono rintracciare alcuni fantasmi del Macbeth che, peraltro, sarebbe divenuto a sua volta un Grand Opéra dieci anni dopo – e al contempo ci sono passi che prefigurano in modo abbastanza preciso alcune soluzioni delle opere a venire, una su tutte La forza del destino. Un’opera “di passaggio”, quindi, o se vogliamo di ricerca. Un momento di sintesi delle esperienze accumulate fino a questo momento (dato non trascurabile, visto che si tratta del primo titolo post-trilogia popolare) e al contempo di apertura a nuove prospettive.

Come per ogni episodio sperimentale, il risultato che troviamo in partitura è materiale non facile da maneggiare, in particolare sotto il profilo drammaturgico e sin dall’alzata di sipario si ha la netta impressione che si sia mancato il bersaglio. Hugo De Ana propone un allestimento uno e trino di cui firma regia, scene e costumi: l’azione viene traslata in un non-luogo dai contorni imprecisati e dal gusto anni ’40, tra tinte cupe e pezzi d’artiglieria che si limitano ad essere usati come sfondo, il tutto impregnato di un gelo così spesso da spegnere anche i momenti più sanguigni. I Vespri sono un titolo cupo e quindi necessitano di ulteriore cura per sprigionare qualcosa in più di una scintilla, mentre De Ana raffredda tutto con una regia gracile e poco adeguata al titolo. Intendiamoci, l’impatto visivo è notevole e con il titolo le scelte di scenografia e costumi funzionano, ciò che manca è una vera, solida idea registica e tutto nasce da una mancata comprensione del punto focale della vicenda.

L’opera si basa su uno schema che interessa molto a Verdi: un dramma privato a cui fa da sfondo la guerra civile o comunque un conflitto, esattamente come avviene nel titolo che segue immediatamente i Vespri, il Simon Boccanegra. Nello specifico, qui tutto ruota attorno all’agnizione, al riconoscimento di un figlio (Arrigo) da parte di un padre (Monforte); tutto il resto è sfondo e nonostante il chiacchiericcio patriottico nell’economia dell’opera è pressoché irrilevante che si tratti proprio dell’insurrezione siciliana, tanto più che il libretto è un adattamento da Le duc d'Albe, ambientato nelle Fiandre. Questo il motivo per cui il melodramma non risente del cambio di ambientazione, mentre risente parecchio della mancata attenzione ai rapporti tra i personaggi, della mancata scelta di un effettivo taglio drammaturgico: mancano calore e anima, nonostante tutti gli sforzi del cast. Invece di concentrarsi su questo, De Ana perde tempo a far sparare un carro armato e a compiere incomprensibili parallelismi con Il settimo sigillo di Ingmar Bergman: la morte non è uno dei temi portanti del dramma e la metafora della partita a scacchi è un pugno in un occhio, come le figure della Morte e di Antonius Block. Quanto agli armamentari bellici, se proprio devi far entrare sul palco un cannone e un carro armato funzionanti sarebbe anche il caso che avessero un senso.

Ottima la direzione di Fabio Luisi che punta su pulsazioni martellanti e ritmi incisivi, ma anche morbidi archi lirici. Si può argomentare su alcune soluzioni, ma in questo titolo di transizione Luisi trova una buona quadratura del cerchio e soprattutto si esibisce in un eccellente controllo di buca e palco che riescono a lavorare con un’unitarietà magistrale. Molto ben riuscite le scene corali e i concertati, così come risultano ben cesellati i caratteristici temi individuali: il tema del grido di vendetta, di Monforte, dell’addio, ecc. In questo fornisce un’ottima prova l’Orchestra del Teatro alla Scala, che segue con attenzione il gesto di Luisi senza rinunciare a una disarmante naturalezza dell’esecuzione, riuscendo peraltro a coniugare in modo intelligente il sangue italiano e il profumo francese. Di pari livello il Coro del Teatro alla Scala – preparato da Alberto Malazzi – che si rende protagonista di alcuni dei momenti più memorabili della serata.

Sul felice esito della prova musicale si allungano però due ombre, già trattate nel dettaglio da Francesco Lora nella sua recensione e su cui non ci si dilungherà, cioè il libretto italiano e i tagli. Il libretto originale già di suo non è un capolavoro, ma la versione ritmica italiana di Caimi uccide quel che resta di buono. Buoni non lo sono nemmeno i tagli, che colpiscono il ballo del terzo atto (le Quattro stagioni, che rappresenta soltanto la più importante pagina sinfonica di Verdi) e persino il coro iniziale del quinto. Sono decisamente lontani i tempi in cui la Scala affermava con orgoglio di essere il centro di diffusione dell’opera italiana e del modo in cui la si debba eseguire.

Il cast nel suo complesso funziona bene ed è verdianamente funzionale, cominciando dai comprimari: buoni i due allievi dell’Accademia del Teatro alla Scala Valentina Pluzhnikova (Ninetta) e Andrea Tanzillo (Manfredo), mentre Christian Federici, Brayan Avila Martinez e Giorgio Misseri offrono un solido sostegno nei rispettivi panni di Roberto, Tebaldo e Danieli. Bene anche il sire di Bethune di Andrea Pellegrini e il Conte Vaudemont di Adriano Gramigni, figure nobili in una terra desolata.

Marina Rebeka, che sostituisce Angela Meade, forgia un’Elena complessa e ricca di sfaccettature: donna di grande carattere, contesa tra l’amor sacro e l’amore per Arrigo, l’onore e i fuochi rivoluzionari, Rebeka trova la cifra del personaggio scoccando le non poche frecce al suo arco muovendosi con disinvoltura tra cesellate colorature e mezzevoci, piani e filati, sfoggiando una gamma coloristica ragguardevole. L’unico limite evidenziato dal ruolo è una certa mancanza di spessore nel registro grave.

Strumento uniforme e dal colore chiaro per Matteo Lippi, alle prese con l’impervia parte di Arrigo e in sostituzione di Piero Pretti. Lippi non è completamente convincente e con ogni probabilità la non direzione scenica di De Ana non gli ha facilitato il compito; un Arrigo poco eroico – anche vocalmente – ma più efficace nei momenti di maggior intensità drammatica ed emotiva: un ottimo risultato e in ogni caso una prova positiva.

Menzione d’onore per Simon Lim, un asciutto ma efficace Giovanni da Procida dotato di un bel colore e un timbro morbido, ben calato nella parte e convincente.

Roman Burdenko è un Guido di Monforte dallo strumento importante e in scena sa guadagnarsi l’attenzione del pubblico impostando la propria interpretazione sul patetico ossimoro del padre e tiranno. Non ha quel carisma che ci si attenderebbe da Monforte e non sempre l’emissione è corretta, ma anche in questo caso si parla di un risultato decisamente positivo.

 


 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.