L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Zeffirelli e i Pagliacci

 di Stefano Ceccarelli

Il Costanzi riporta in scena lo splendido allestimento di Franco Zeffirelli dei Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, che l’illustre scenografo creò per l’Opera di Roma nel 1992. La ripresa della regia è di Stefano Trespidi, mentre sul podio (oggi come allora) siede Daniel Oren. Le principali voci del cast sono: Nino Machaidze (Nedda), Brian Jadge (Canio) e Amartuvshin Enkhbat (Tonio).

ROMA, 15 marzo 2023 – Quando un allestimento operistico è bello esteticamente e funzionale drammaturgicamente, non ha letteralmente età. Lo dimostra Pagliacci a firma di Franco Zeffirelli, che creò questo allestimento per il capolavoro di Ruggero Leoncavallo, la prima volta, nel 1992. Rimontate nel 2023, appunto, le scene di Zeffirelli promanano ancora tutto il loro fascino e la loro inconfondibile firma; la regia, poi, ripresa da uno stretto collaboratore del Maestro, Stefano Trespidi, non dimostra affatto gli anni che ha.

Zeffirelli immagina che la vicenda si svolga in un sobborgo popolare di una città del Sud Italia, proponendo un’attualizzazione della vicenda. Cosa insolita per la sensibilità di Zeffirelli, tanto che è lo stesso regista a sentire quasi l’esigenza di giustificarsi nelle note di sala di quel 1992: «ho fatto eccezione per Pagliacci, che sono l’unica opera che ho realizzato in abiti contemporanei, ambientata oggi, in un certo mondo pittoresco indicato già da Leoncavallo». L’idea scenica di questo ‘mondo pittoresco’ si sostanzia in una gigantesca parete che sembra la base di un palazzo di cui non si vede la sommità, quasi a schiacciare la visione dello spettatore. Vi si affacciano appartamenti anonimi (con le TV accese, una persino con il Maurizio Costanzo Show in onda, per chi ha avuto occhio di farci attenzione), di cui gli interni sono incredibilmente dettagliati, come pure le botteghe ed il bar che si trovano al piano terra. È questo il più puro stile zeffirelliano, l’attenzione maniacale ai particolari, l’esigenza di particolareggiare ogni angolo del palco. Una miriade di comparse si affaccenda in uno spaccato di vita quotidiana: forze dell’ordine, sfaccendati, donne, passanti, bambini, saltimbanchi tutti danno vita alla scena, in una baraonda di situazioni. La vita ordinaria di questo sobborgo è interrotta dall’arrivo sgargiante del carro di pagliacci ambulanti, i cui costumi festosi sono l’unico elemento cromatico che spezza la grigia monotonia dell’ambientazione. Se c’è da trovare un difetto a tanta splendida abbondanza è forse nelle luci, che sarebbero potute essere meglio gestite e variate. Il II atto, quello della recita, viene caratterizzato da pannelli stampati sullo sfondo che riprendono le tipiche grafiche dei manifesti circensi: l’ambiente è quasi azzerato e reso astratto, per concentrarsi sulla recita e l’esito cruento del finale. La regia di Zeffirelli è un modello di cura, amore ed aderenza al testo dell’opera. Ogni scena è ben caratterizzata; i personaggi sono ottimamente scontornati e tutto funziona magnificamente. Si pensi solo al tripudio di comparse circensi nel I atto o alla recita nella recita del II, dove i cantanti sono chiamati a interpretare personaggi stereotipizzati, da Commedia dell’arte. I costumi sono quelli di Raimonda Gaetani e si segnalano per l’ottima fattura e la cura di tutti i particolari.

Sul podio siede Daniel Oren, proprio come al battesimo di questo allestimento, nel 1992. Dev’essere stata, per lui, una grande emozione, tradotta sicuramente nella cura con cui si accosta alla partitura di Leoncavallo. La direzione di Oren è tutta colori, tensione, verve. Pagliacci sembra vibrare di una tensione sotterranea che si scioglie nel delitto finale; Oren ne tesse sapientemente le fila, esaltando i momenti più lirici (sostanzialmente quelli di Nedda) ed imbrigliando in un’agogica vivida le parti più brillanti che caratterizzano le performance degli artisti di strada. Quale che sia il momento della partitura, Oren si rammenta sempre della tragicità soggiacente alla musica di Leoncavallo e ne esprime la sotterranea tensione. Le maestranze dell’Opera di Roma sono in stato di grazia: sia l’orchestra che il coro si impegnano, l’una a donare un suono fresco, frizzante, teso, drammatico, l’altro a caratterizzare le scene popolari.

Nel cast si distingue certamente il Canio di Brian Jadge. L’americano possiede un notevole mezzo vocale, che ha nella robusta tessitura mediana, baritenorile, e negli acuti svettanti e potenti i suoi punti di forza. Jadge non si trova, forse, in una serata di grazia, ma riesce a scontornare bene il ruolo, migliorando la performance nel corso della serata. Infatti, la celebre aria «Recitar!... Mentre preso dal delirio» riesce ottimamente: il recitativo è sofferto, con tutti i colori al loro posto, e l’aria si staglia nella parte acuta con potenza e chiarezza, acuendo il dolore del personaggio. Altro momento clou è il finale («No. Pagliaccio non son»), dove Jadge fa egualmente bene, interpretando con intensità. Il ruolo di Nedda è affidato a Nino Machaidze, dotata di una voce brunita nel suo cuore centrale, vibrata. A livello scenico e recitativo, la Machaidze è eccellente; su un piano meramente vocale e interpretativo, pur facendo tutto bene, si nota qualche durezza nella parte acuta, che emerge in un’aria tersa come «Stridono lassù, liberamente», la cui musica suggerisce l’aerea libertà degli uccelli, preclusa a Nedda. Migliore risulta il successivo duetto con Silvio, di cui si dirà fra poco. Certamente migliore il II atto, con la scena della recita, dove canta ed interpreta convincentemente. Nel ruolo di Tonio, Amartuvshin Enkhbat stupisce, ancora una volta, per il generoso volume e per l’indubbia bellezza della sua voce; se si parla di frasi melodiche, legati, arcate vocali, Enkhbat ammalia il pubblico grazie alle sue naturali doti. Sul piano interpretativo, però, il baritono potrebbe forse migliorare, soprattutto in un ruolo così multiforme come quello di Tonio – da voce prologante a deforme innamorato di Nedda, delatore, Jago della storia, personaggio squisitamente scapigliato, tutti colori che il cantante mette nella sua voce, mancando solo un fraseggio più incisivo. Silvio è interpretato da Vittorio Prato, che si giova di una notevole presenza scenica; quanto al lato vocale, il duetto con Nedda regala momenti notevoli (come lo sfumato unisono finale), ma in qualcun altro il fraseggio di Prato è forse meno incisivo di quanto potrebbe. Comunque, la sua voce pastosa ben si adatta al ruolo di un baritono innamorato. Matteo Falcier canta un buon Beppe, lasciandosi apprezzare nell’aria di Arlecchino («O Colombina, il tenero»).

In conclusione, una serata ben riuscita, intensamente applaudita dal pubblico. Il Costanzi dovrebbe più spesso recuperare, restaurare e financo reinterpretare i tanti allestimenti che vanta nel suo secolare repertorio, regalando ancora al pubblico odierno, magari, qualche altra perla come i Pagliacci zeffirelliani.


 

 

 
 
 

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