L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Mozart si fa in quattro

di Francesco Lora

Don Giovanni di Mozart è la prima opera al Maggio Musicale Fiorentino, spettacolo scialbo, tuttavia, sia nella regìa di Giorgio Ferrara sia nella concertazione di Zubin Mehta. Il merito spetta invece alla metà migliore, anzi ottima, della compagnia di canto: Luca Micheletti, Jessica Pratt, Anastasia Bartoli e Markus Werba.

FIRENZE, 30 aprile 2023 – Ci si può accanire facilmente contro il teatro di regìa applicato agli spettacoli d’opera, ma ciò anche per il fatto che gli spettacoli di tradizione sono ormai una minoranza: si rischia dunque di confrontare un male reale, se male è, con un bene ideale, se bene è. Che non sia in via automatica un bene lo dimostrano le cinque recite di Don Giovanni attualmente in corso al Maggio Musicale Fiorentino, dal 30 aprile al 12 maggio, nella sala grande, prima opera del festival numero 85. Il passato sovrintendente aveva programmato un nuovo allestimento affidato a David Pountney e afferente, a intuito, a un moderato teatro di regìa; il presente commissario, invece, onde far regolare i conti, ha preferito ripescare un allestimento del 2017 e ormai rimosso dalla memoria dell’appassionato: quello del Festival dei Due Mondi di Spoleto, con regìa – nemmeno ripresa personalmente – di Giorgio Ferrara, scene di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, costumi di Maurizio Galante e luci di Fiammetta Baldiserri. Tale allestimento lo si vorrebbe ispirato al venerante pensiero di Søren Kierkegaard sul capolavoro di Lorenzo Da Ponte e Wolfgang Amadé Mozart, ma ricade poi appieno in una visione tradizionale, quando non proprio oleografica, del mettere in scena un’opera. Contro la sicumera dei tempi attuali, esso diviene appunto un uccello raro, utile a ricalibrare il metro di giudizio. Il problema è che ogni deroga dalla didascalia e dalla letteralità del libretto, se didascalia e letteralità sono di fatto assunti a legge, finisce – e finisce assai spesso – col risultare segno di assurdità e sciatteria: Donna Anna che sprona Don Ottavio a correre in soccorso del Commendatore, e lo fa non nell’uscire in scena ma già sopra il corpo morto di lui steso al suolo; Ottavio che esorta gli amici ad andare a consolare l’amata, la quale però è ancora lì con lui mentre Donna Elvira se l’è svignata; Leporello che si appresta a scavalcare dall’esterno il muro del cimitero, onde finire in dialogo col protagonista, salvo poi tornare giù ed entrare comodamente per il cancello bello che aperto. Lampi di genio ce n’è uno solo, ma viene bruciato proprio all’inizio, e si trova nel duello tra il Commendatore e Don Giovanni: il primo sguaina cerimonialmente la spada, per regolare i conti alla maniera dei nobiluomini, il secondo gli risponde con un colpo di pistola, enunciando così già molto della propria filosofia interpersonale. Guai a dare per scontato, conunque, che la tradizione proceda da sé, salda sulle proprie gambe, senza dar luogo a grattacapi; e guai se ci si piomba dentro senza accorgersene.

A far procedere con dignità lo spettacolo resta non altro, tramite la propria abilità e iniziativa, che la metà migliore, anzi ottima, della compagnia di canto. Si rischia la tautologia a dirlo nel caso particolare di Luca Micheletti, che nella vita fa tanto il baritono d’opera quanto l’attore di prosa. Non si era forse mai ascoltato un Don Giovanni con una pari scontata consapevolezza della parola e del flusso sintattico verbale dentro i tempi della musica; si aggiunga che la figura scenica, scioltissima e ancora giovane, nonché i mezzi vocali, copiosissimi e assai personali, calzano come un guanto al testo teatrale e musicale, e si aggiunga ancora che egli ha già studiato la parte con Riccardo Muti per poi rimeditarla in misura ulteriore: se ne trae di avere davanti – niente di meno – l’interprete internazionalmente ideale dei giorni presenti. Gli è perfetto compagno di recitazione Markus Werba, Leporello buffamente caricato alla vecchia maniera, ma anch’egli baritono – contro l’uso abituale di riferirsi a una vocalità più grave – spensierato nel registro acuto e mai forzato lungo la gamma. Diversificate tra loro in modo ideale, Anna riceve l’elegante, luminoso, naturale, toccante virtuosismo di Jessica Pratt, mentre Elvira il passionale impeto e le peculiari asprezze di Anastasia Bartoli. Efficace Adriano Gramigni come Commendatore, ma non altrettanto ben riuscito il resto dell’assortimento, con tutti gli errori di casting tipici del mondo tedesco: Ruzil Gatin, come Ottavio, ha qui tale inconsistenza vocale da non conservare uniti il timbro e l’emissione attraverso i registri, nemmeno per brevi tratti; Eduardo Martínez, come Masetto, si comporta da ultimo dei comprimari – cattiva pronunzia, modi caricaturali – senza mettere a punto il doveroso riscatto di un giovane innamorato, mentre Benedetta Torre, come Zerlina, risulta anch’ella distaccata, fredda e marginale, anziché imporsi per il ruolo di primadonna buffa che le spetta. Quanto alla direzione musicale di questo Don Giovanni, si ha una triste astensione, o meglio la recidiva di una soluzione invero obsoleta: Zubin Mehta ha fatto miracoli in altre esecuzioni di aprile al MMF – una Carmen di Bizet dalla sfrenata e possente rutilanza, la più eloquente Seconda di Mahler degli ultimi anni – ma a Mozart imprime un passo lento e senza nerbo, curandosi del precipitare timbrico dell’orchestra in un solo centro plumbeo anziché del geniale propagarsi della stessa nel giardino di colori e negli scoppi tremendi predisposti dal compositore. Sicché, sì, qui l’opera è in fin dei conti fatta da quattro voci.


 

 

 
 
 

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