L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Butterfly tra sogno e kitsch

di Alberto Ponti

Il titolo pucciniano, nella ripresa dell’ormai storico allestimento di Damiano Michieletto, chiude la stagione del Teatro Regio.

TORINO 22 giugno 2023 - Se Giacomo Puccini sarà il nume tutelare sotto la cui ala si svolgerà una buona parte della stagione 2023-24 di fresca presentazione, in concomitanza con l’imminente centenario della scomparsa del compositore, nel nome di Puccini si chiude anche l’attuale stagione, la prima svoltasi per intero senza tagli, modifiche o aggiustamenti dopo i difficili anni della pandemia.

Madama Butterfly è un titolo del grande repertorio e, con voci e bacchette giuste, si rivela sempre per il capolavoro che è. L’allestimento di Damiano Michieletto non è invece una novità per Torino, essendo il medesimo ideato nel 2010, e poi ripreso nel 2012 e 2014, con minime varianti quale ad esempio l’automobile su cui entrano in scena Pinkerton e Sharpless: nella prima edizione era un prototipo firmato Giugiaro, sostituito nelle successive, per motivi di copyright e di esclusiva dopo la cessione della maggioranza dell’azienda del designer piemontese a Volkswagen, da una ben più modesta e vecchiotta Lancia Thema bianca. La nota di colore, nell’economia dello spettacolo, non è nemmeno insignificante o sbagliata. Michieletto immagina una Butterfly ambientata ai giorni nostri nella periferia di una città asiatica, tra cartelloni pubblicitari kitsch e spazi privati claustrofobici, la cui metafora è la casetta trasparente, piccolo container dove, dentro o negli immediati paraggi, si svolge l’intera azione. La protagonista rimane una sognatrice un po’ semplice, come è nel libretto della coppia Illica e Giacosa, ma trasponendo la scena ai giorni nostri appare più attirata dai miti del consumismo a stelle e strisce, declinati in salsa orientale, che non dal mito degli Stati Uniti in veste di nazione moderna e progressista in confronto al Giappone con la sua realtà feudale sopravvissuta intatta fino agli albori del Novecento. Ecco allora che pure una vettura occidentale non troppo lussuosa può far colpo sull’animo di una ragazza dei bassifondi che aspira a migliorare la propria condizione. E, si sa, matrimonio e gioco sono le strade con cui si spera di fare il salto di qualità soprattutto nelle società sottosviluppate. Il rapporto tra i protagonisti è speculare e allo stesso modo attualizzato. Il tenente F. B. Pinkerton non è più l'ufficiale di marina che insegue il fascino dell’esotico, desideroso di approfondirne anche il lato erotico, vissuto alla stregua di un trastullo tosto cancellabile mediante le nozze con una connazionale, ma un vero e proprio soggetto attivo di un tour finalizzato al turismo sessuale, forte del denaro con cui, in un dato milieu, immagina di comprare a piacimento cose e persone. Il dramma, alla fine, sta tutto qui, nella passione improbabile fra un uomo leggero, che nello spettacolo di Michieletto lascia da parte la consueta insipienza per assumere quasi una nota di violenza e maleducazione, scagliando a un certo punto una bottiglia di birra vuota per terra e riducendola in frantumi, e una donna ingenua ma ambiziosa e appassionata che intravede nel militare americano il sincero nutrimento per la propria fame di amore e di futuro. Entrambi, in sostanza, sono presi in misura maggiore dall’idea che si sono fatti del partner che non dal partner stesso. Premessa disastrosa e tragedia inevitabile. La ripresa di Elisabetta Acella dell’allestimento di Michieletto con le scene di Paolo Fantin, i costumi di Carla Teti e le luci di Marco Filibeck (riprese a loro volta da Vladi Spigarolo) garantisce la buona riuscita di una rappresentazione che, se non può quindi far leva sulla novità della visione, va comunque a segno illustrando in maniera esplicita la perversione del mondo contemporaneo. La forzatura di ambientazione e le libertà registiche conducono a talune licenze curiose, dove, per non citarne che una, a metà del grandioso duetto tra Cio-Cio-San e Pinkerton che chiude il primo atto, alle parole del tenore ‘ti serro palpitante’, Butterfly si trova in realtà da sola, ben distante sul tetto della sua baracca.

Su tutto ha la meglio, e non poteva che essere così, la musica di Puccini, finissimo indagatore dei più sottili moti dell’animo umano, e maestro nel farli convivere fianco a fianco. Butterfly è una partitura di suprema raffinatezza, fondata se vogliamo su poche idee portanti, declinate tuttavia nel registro vocale e nella tessitura orchestrale con un incessante lavorio di elaborazione e metamorfosi. La direzione di Dmitri Jurowski valorizza la complessa scrittura sinfonica dell’opera lavorando sulla varietà timbrica e dinamica, con una concertazione di notevole flessibilità, merito anche dell’orchestra del Teatro Regio apparsa in gran spolvero. Punti salienti di questa interpretazione non sono solo i passi in cui l’eloquio dichiaratamente strumentale viene allo scoperto, nel modernissimo fugato in apertura di sipario, nel preludio del secondo atto o nel celebre intermezzo (che il pubblico stranamente non applaude…). La mano di Jurowski è sempre presente, e si sente eccome, nei passaggi culminanti, nei declamati drammatici, e sotto le più sottili trame vocali, nella delicata preghiera di Suzuki ricca di fascino orientale, nei pizzicati degli archi in sordina e nei balbettii dei flauti nel coro a bocca chiusa, risolto sul palcoscenico con una suggestiva processione notturna, unico momento, insieme alla scena delle nozze, in cui il coro del Regio è chiamato in causa in una vicenda tutta focalizzata sul destino della protagonista.

Barno Ismatullaeva, combattivo soprano uzbeko, può mettere sul piatto della bilancia un'ottima tecnica di canto, e compensa con un temperamento attoriale generoso e istintivo un physique du rôle non propriamente da femme fatale capace di magnetizzare l'uditorio con le sue movenze. Ottima intonazione, coscienza e controllo dei mezzi vocali, talvolta perfino eccessivo a costo di sembrare un po' trattenuta nel pathos, soprattutto nella parte iniziale quando dovrebbe apparire una ragazza spensierata e felice, delineano una Cio-Cio-San in crescendo a partire dall'ampio duetto con Pinkerton per trovarsi a suo agio nella seconda parte intrisa di crescente tragicità, ma attenta a non cadere nel tranello dell'esasperazione, nella ricerca del facile effetto. 'Un bel dì vedremo', la romanza più attesa, suscita applausi a scena aperta e il finale, quando in luogo del tradizionale harakiri la regia risolve il suicidio con una rivoltellata, risulta convincente e credibile sul piano esecutivo, con un fraseggio nervoso ma non spezzato e un timbro tendente allo scuro che incorniciano a tutto tondo la sofferta psicologia del personaggio.

Per contro, il Pinkerton del tenore Matteo Lippi è figura, in maniera voluta, assai meno problematica, procedendo con traiettoria lineare dall'inizio alla fine dell'opera. Intonazione cristallina e squillante, canta spedito e con baldanzosa sicurezza la parte dall’aria di entrata ‘Dovunque al mondo’, suffragando la bontà di voce e accento in ‘Viene la sera’ a tu per tu con la novella sposa e nel breve, risolutivo ‘Addio, fiorito asil’. A lasciare perplessi, al di fuori dell’amalgama lirico, è la mancanza di vero dialogo tra Pinkerton e Butterfly, conseguenza dell’idea registica che li vede portatori di filosofie di vita differenti e inconciliabili, trasformando la ‘tragedia giapponese’ in un attuale dramma dell’incomunicabilità. È il dilemma dello scontro tra drago e cavaliere descritto mirabilmente da Giorgio Manganelli in Centuria: ‘Colpisce, in tutta la vicenda… la assoluta inintelligenza del cavaliere nei confronti del drago. Non ne avverte le distanze, la solitudine… Il cavaliere ignora di essere egli stesso giunto ad un appuntamento. Se, fermo sul suo bel cavallo, poggiasse la lancia al suolo, reggendola pianamente, senza ira e paura, il drago, vedendo delusa la sua brama di morte, forse inizierebbe il colloquio’.

Di buon livello gli altri componenti della compagnia, a cominciare da Sharpless, il console americano impersonato dal baritono Damiano Salerno, cui, in assenza di Pinkerton che compare solo nel finale è domandato il compito di alter ego maschile di Butterfly in tutto il secondo atto. Il compito è assolto in modo eccellente con un canto centrato ed espressivo, pur in assenza di assoli memorabili, in grado di rendere al meglio la duplice natura di spalla del fedifrago non priva però della sensibilità mancante al compare. Anche Suzuki è la conferma positiva della versatilità di un’artista del Regio Ensemble quale Ksenia Chubunova, già ascoltata in diversi ruoli nel corso della stagione, a formare con Cio-Cio-San una coppia di spessore in ‘Scuoti quella fronda di ciliegio’ (detto per tradizione ‘duetto dei fiori’) e non solo, purtroppo penalizzata da una pronuncia non perfetta.

Al termine applausi convinti della platea nutrita per tutto il cast, comprendente anche Goro (Massimiliano Chiarolla, tenore), il principe Yamadori (Michele Patti, baritono, che sfrutta alla grande il suo cammeo nel secondo atto), lo zio Bonzo (Daniel Giulianini, basso), il Commissario Imperiale (Rocco Lia, baritono), Kate Pinkerton (Irina Bogdanova, soprano), la madre di Cio-Cio-San (Raffaella Riello, mezzosoprano), lo zio Yakusidé (Marco Sportelli, baritono), l’ufficiale del registro (Marco Tognozzi, basso), la zia (Paola Isabella Lopopolo, soprano), la cugina (Caterina Borruso, soprano) e, last but not least, il figlio di Cio-Cio-San, parte mimica ricoperta dal fanciullo Alberto Maria Bonato.


 

 

 
 
 

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