L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Tantum Regio potuit

di Antonino Trotta

La Juive di Fromental Halévy inaugura la stagione 2023/2024 del Teatro Regio di Torino con una sontuosa produzione che rievoca alla mente degli affezionati spettatori i fasti di qualche anno fa: l’intensa concertazione di Daniel Oren, l’affiatamento del parterre vocale – in cui spiccano le prove di Gregory Kunde, Mariangela Sicilia e Martina Russomanno –, i complessi sabaudi in gran spolvero e l’imponente messinscena firmata Stefano Poda garantiscono uno spettacolo di altissimo valore.

Torino, 24 settembre 2023 – Si ritorna, finalmente, al Regio di qualche anno fa, o almeno questo è ciò che sembra dalle premesse che il nuovo allestimento di La Juive, grand-opéra di Fromental Halévy, mette in chiaro al taglio del nastro della coraggiosamente pucciniana stagione 2023/2024. Costruita su libretto di Eugéne Scribe, La Juive di Halévy incastona, nell’arco di quattro abbondanti ore, il martirio dei protagonisti Éléazar e Rachel, padre e orafo ebreo lui, figlia adottiva sottratta – in maniera più o meno lecita – al cardinale Brogni lei, in un clima caustico di intolleranza religiosa e razziale dove l’intreccio amoroso tra la sventurata ragazza, il principe Léopold e la principessa Eudoxie offre solo l’ennesima occasione per perpetrare quei nefandi sentimenti di repulsione che innervano l’intera trama teatrale e musicale.

È su questa amara constatazione che l’imponente messinscena firmata dal factotum Stefano Poda, che al solito cura regia, scene, costumi, coreografia e luci, si focalizza appieno: ambientata, al solito, in uno spazio abnorme – si utilizza tutto il palcoscenico del Regio e il coro spesso canta praticamente sotto la Mole – e in un tempo indefinito dominato da bicromie nette e dal classico sfondo in altorilievo biancastro su cui stavolta torreggia la citazione lucreziana «Tantum religio potuit suadere malorum» (De rerum natura, «la religione poté persuadere a compiere così grandi mali»), questa Juive ha senza dubbio il merito di non concedere distrazioni emotive mentre onora quel sensazionalismo che nel genere del grand-opéra non guasta mai. Per un’opera di quattr’ore, in effetti, di cose ne succedono pochine, e Poda qui s’è dimostrato talvolta assai arguto nell’ammaestrare lo spazio e il tempo della narrazione senza rinunciare a quell’estetica che è sua indiscussa cifra e molto spesso sua inevitabile condanna. Ciò che più colpisce, anzi convince, di fatto, in questo spettacolo che è – ad avviso di chi scrive, tra i migliori confezionati del regista torinese –, al netto dei pur frequenti déjà-vu, è la banale considerazione che ciò che si vede è facilmente intuibile e riconducibile alla coincisa idea di fondo: la via crucis sullo sfondo, il richiamo all’ultima cena, persino le coreografie che l’eccellente corpo di ballo realizza, trovano nello sguardo dello spettatore un’immediata collocazioni senza la fastidiosa necessità di lasciarsi convincere dalle note di sale – astrolabio a parte, ma è un tale capolavoro di ingegneria scenografica che non ci poniamo nemmeno il problema –; niente aggiunge molto altro, ma tutto corrobora un discorso che s’intensifica man mano senza perdere mai nerbo, anche quando i protagonisti inaspettatamente si sbracciano in proscenio come in uno Zeffirelli d’annata. Poda, poi, coglie l’occasione per sfoderare tutta la potenza di fuoco del palcoscenico sabaudo, tra ponti mobili, piattaforme semoventi e marchingegni calati dall’alto – l’astrolabio di cui sopra, per l’appunto – e, dimenticando per un attimo le ragioni di una regia, si fa fatica a rimanere indifferenti dinnanzi a tale sontuosità.

Se la messinscena strabilia, la concertazione di Daniel Oren commuove per l’intensità di fraseggio e il respiro, quasi oratoriale, con cui la partitura è affrontata. Alla guida dell’Orchestra del Regio, in forma smagliante, Oren, già conoscitore ed estimatore del titolo, intavola una lettura che pur privilegiando una distensione ritmica non manca di restituire ad ogni battuta di ogni pagina dell’opera, ora coi colori, ora con gli accenti, sorvegliata e coinvolgente drammaticità. Eccezionale, va sottolineata, è poi la prova del Coro del Teatro Regio di Torino, protagonista insieme agli altri dell’opera, apparso quasi rigenerato dalla nuova guida del maestro Ulisse Trabacchin.

Il cast annovera tra le sue file autentici fuoriclasse. Trionfa a furor di pubblico l’Éléazar dell’inossidabile, carismatico Gregory Kunde, accolto da autentiche ovazioni a scena aperta dopo la celebre aria «Rachel, quand du Seigneur». La solidità della tecnica, la tenacia del canto, la sensibilità dell’interprete che sa vivere con ammirevole nobiltà il tormentato contrasto tra l’amore filare e il fanatismo religioso ne fanno semplicemente l’interprete ideale. Tale è stata anche Mariangela Sicilia che con innata eleganza si cimenta nel ruolo di Rachel, creato da Marie-Cornélie Falcon – la cui tessitura ibrida oggi definisce quella del cosiddetto soprano Falcon –. Pur rimanendo «Il va venir!», pagina in cui far rifulgere le sue magnifiche qualità sopranili – l’aria è disseminata di finezze vocali –, il momento più alto della sua prova, si rimane colpiti dal temperamento, dall’intelligenza musicale, dal coinvolgimento scenico con cui il soprano calabrese ha saputo costruire un personaggio completo e appassionato anche quando sviluppato fuori dal terreno d’elezione del puro lirismo. Marina Russomanno, Eudoxie, riesce a farsi spazio tra tali colleghi sfoggiando una linea di canto ben governata, un timbro luminoso e una buona dose di sprezzante virtuosismo. Riccardo Zanellato, autorevolissimo cardinale Brogni, si fa ammirare per la classe nel porgere, per l’emissione morbida e la varietà con cui affronta prima i momenti di ispirata clemenza, poi quelli di più carnale furore. Molto bene anche Ioan Hotea, principe Léopold dal colore limpido e dallo stile ragguardevole. Completano correttamente il cast Gordon Bintner (Ruggiero), Daniele Terenzi (Albert), Rocco Lia (un araldo), Leopoldo Lo Sciuto (un ufficiale dell’imperatore), Lorenzo Battagion e Roberto Calamo (uomini del popolo).

Spettacolo coi fiocchi e inaugurazione degna di questo nome – bellissimi, nota a margine, anche i nuovi volumi di sala, proposti in un’elegantissima versione –. Che sia solo il primo successo per questa nuova stagione del Regio.


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