L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il cigno nero

di Roberta Pedrotti

Il debutto italiano della nuova orchestra Utopia di Teodor Currentzis con Barnabás Kelemen solista entusiasma il pubblico bresciano. In programma una lettura di Brahms e Čajkovskij che non lascia indifferenti e solleva, semmai, interrogativi e riflessioni.

BRESCIA, 20 novembre 2023 - Teodor Currentzis. Basta il nome per aprire una serie interminabile di discussioni, vuoi che si tratti dei finanziamenti ai suoi progetti, vuoi che si tratti della sua immagine quasi mistica di musicista e interprete e delle peculiarità delle sue interpretazioni. Nel 2004, trentaduenne, il direttore greco di nascita e russo di formazione fonda in Siberia MusicAeterna, che comprende ora un'orchestra, un coro, un corpo di ballo e vari ensemble interni, a incarnare quella che sembra la necessità congenita di plasmare uno strumento collettivo per dar forma alle proprie idee. D'altro canto, MusicAeterna trova anche cospicui sostegni finanziari e il legame con Gazprom, il colosso energetico del governo russo, o con istituti bancari come la VTB garantisce mezzi imponenti, ma anche critiche non meno agguerrite. Quasi come una risposta, nel 2022 nasce allora Utopia Orchestra, altra compagine internazionale con una trentina diverse nazionalità rappresentate e, questa volta, totalmente svincolata da legami istituzionali: la dichiarazione è di totale indipendenza, i mecenati anonimi (anche qui, chi vorrà potrà sbizzarrirsi con le indagini...). In due sole date , a Brescia e Roma, ora Utopia si presenta al pubblico italiano e riporta l'attenzione diretta dalle cronache politico-economiche all'essenza centrale del fenomeno Currentzis. Insomma, al di là della galassia di realtà musicali da lui create, della loro importanza e rilevanza anche monetaria, quanto vale davvero il direttore-guru dal gesto danzante? È tutta apparenza o c'è anche sostanza?

Quando la serata bresciana si apre, con il Concerto per violino e orchestra op. 77 è subito chiaro che a catturare l'attenzione non saranno fronzoli costruiti ad arte. Utopia sfoggia un organico corposo di grande livello tecnico, ottimo punto di partenza, ma chiaramente non basta e lo dimostra la scelta di Barnabás Kelemen come solista. Un violino così appassionatamente dedito all'attività cameristica in varie formazioni, dal più stabile Kelemen Quartet a collaborazioni episodiche, non sarà mai al centro di una turgida contrapposizione fra una massa e una voce imperiosa. Difatti, in corrispondenza con il movimento totale di Currentzis, dal battito dei piedi all'ondeggiare delle dita senza bacchetta, l'impostazione del concerto di Brahms è, seppur amplificata nelle proporzioni e nella mole sonora, cameristica. Nei primi due movimenti il rapporto solo/orchestra si delinea subito come quello di un primus inter pares che lancia e raccoglie suggestioni coloristiche pronte a trasformarsi di idee di fraseggio e dinamica. Si avverte, per quanto possibile in una compagine nata da un anno, la stella polare del far musica insieme, splendida utopia che prende forma in un'articolazione sì mobile e frastagliata, ma anche straordinariamente morbida e sfumata, con un gioco di pianissimi soffici, impalpabili e pure ben nitidi e presenti. La libertà con cui si muove questo Brahms ha un che di quasi perturbante, spudoratamente intimo e destinata, si direbbe senza scampo, a sfociare in un terzo movimento in cui l'accentuazione puntualissima di alcuni sforzando e di piccoli ritenuti esalta un fremito asimmetrico di sapore tzigano. Kelemen è ungherese, assiduo frequentatore di Bartók e qui si sente eccome, trasformando il melos estatico in un impulso vitale più che coerente, anche grazie alla capacità dell'orchestra di sottolineare la delicatezza con il contrasto di sonorità piene e assertive. D'altra parte, questi contrasti non appaiono come giustapposizioni estreme, ma come conseguenze di un discorso poetico in cui, per esistere, tesi e antitesi devono in qualche modo coesistere, così come l'idea di un Brahms non convenzionalmente “brahmsiano” coesiste con la trasparenza del dettaglio.

Da primus inter pares, Keleman nell'acclamato bis paganiniano riappare solo a ribadire un impavido controllo virtuosistico, mentre nella seconda parte si presenta al primo leggio in orchestra, come spalla, a riconfermarsi membro di una comunità musicale.

È la volta di Čajkovskij, di una Quinta sinfonia che ancora una volta conferma le aspettative presentandosi come non ci si aspetta. Currentzis e le sue orchestre non cercano di piacere allineandosi a una tradizione, ma il sospetto che l'originalità sia solo un espediente per farsi notare, cavallo di Troia del nulla, si dissolve in teatro. Piaccia o non piaccia, affascini, disorienti o destabilizzi, c'è convinzione in questo Čajkovskij come c'era in Brahms, c'è un palpito nervoso, tragico che non si allenta mai, piuttosto trae slancio nelle gradazioni dinamiche impresse da Currentzis. Il moto continuo, proteiforme riesce a non apparire lezioso o fine a sé stesso, anche perché non si sfoga in apoteosi eclatanti, ma mantiene un controllo ancora una volta coerente con il senso tragico, con il profondo rovello interiore di un'autobiografia musicale agitata e sofferta. Basti pensare a come è ombreggiato il valzer, lontano dal lirismo sognante che si è soliti associargli in contrasto con il dramma dell'esistenza, della contrapposizione fra singolo e collettività. Qui, ancora una volta, si crea un'unità inscindibile, tragica, di opposti che troverà la sua apoteosi nell'atro, inquietante Pas de deux dallo Schiaccianoci, bis che Currentzis presenta sottolineando che non sarà questa un'interpretazione “natalizia”. Decisamente no, è il lato oscuro della fiaba, è il cigno nero - per rimanere nel tema dei grandi balletti del compositore russo - che si svela ed esce dall'ombra del bianco per rivendicare il suo spazio, il suo essere parte irrinunciabile del tutto, il rimosso da portare alla luce, il dionisiaco oscuro che deve incontrare la forma luminosa dell'apollineo. Il pubblico bresciano, già entusiasta per la prima parte, scatta in piedi per i due Čajkovskij, quello previsto e quello fuori programma, in un turbine inaudito di applausi. E il successo – e un altro colpo magistrale della Capitale della Cultura dopo Kirill Petrenko in giugno – non è solo per la qualità dei musicisti di Utopia, non è solo per il carisma e l'originalità di Currentzis: è per una visione propositiva, problematica, estrema, che non desta banale stupore, semmai lascia con degli interrogativi, mette in discussione categorie. Brahmsiano, čajkovskijano sono aggettivi che usiamo con facilità, forse troppa, per definire l'idea che che noi abbiamo di Brahms e di Čajkovskij, ma da dove venga quell'idea, a cosa corrisponda e cosa escluda, in che termini possiamo individuare l'essenza di un autore o cambiare prospettiva senza tradirlo, dove siano la libertà e l'arbitrio, il gusto, l'interpretazione e il testo è l'eterno quesito che dovremmo poterci porre sempre. Anche se scioglierlo resta pura Utopia.


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