Luci e ombre sull'opera
di Irina Sorokina
Nonostante la grande parata di stelle e alcune prove di rilievo, non mancano gli elementi discutibili nella serata proposta dall'Arena anche in diretta tv in mondovisione.
Ci vuole un attimo per consultare l’elenco dei beni materiali e immateriali italiani iscritti nel patrimonio immateriale di Unesco: l’Opera dei Pupi siciliani, il canto a tenore sardo, il saper fare del liutaio di Cremona, la dieta mediterranea, la festa delle Grandi Macchine a Spalla, la vite ad alberello di Pantelleria, la falconeria, l’arte del “pizzaiuolo” napoletano, l’arte dei muretti a secco, la Perdonanza Celestiana, l’Alpinismo, la transumanza, l’arte delle perle di vetro, l’arte musicale dei suonatori di corno di caccia, cerca e cavatura del tartufo. Da pochissimo un nuovo bene è entrato a fare parte dell’elenco la Pratica del canto lirico in Italia (non "L'opera lirica italiana", come scritto in maniera fuorviante): la notizia riempie di gioia e d’orgoglio i cuori degli italiani. L’evento festeggiato in un luogo unico e magico, dalle dimensioni eccezionali, l’Arena di Verona. Un giorno prima di Turandot, il primo titolo del Festival 2024, la Fondazione propone un’imponente serata di gala, forse la più imponente nella storia del festival ultracentenario nella città di Romeo e Giulietta. Imponente il programma che include ben ventotto brani, imponente l’orchestra di centosessanta elementi, enorme il coro che raggiunge circa trecento artisti, lunga la lista dei solisti. La serata riempie l’anfiteatro grandioso, ma, chi non può presenziare, può seguirla in televisione, in diretta su Rai Uno, fatto che influenza decisamente l’approccio all’evento del genere. E poi ci sono le autorità compresi il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
Ben tre presentatori sono chiamati ad affrontare un compito non facile, Alberto Angela, Luca Zingaretti e Cristiana Capotondi; tutti se la cavano con onore, anche se nella mente di qualche conoscitore devoto o un semplice melomane c’è forse il desiderio di vedere al loro posto qualcuno che proviene dal mondo dell’opera o, almeno, l’ama e la conosce da sempre. La serata propone ben ventotto pezzi e per eseguirli è impegnata una vera marea di artisti, cantanti, strumentisti, coristi e ballerini. La prima parte è diretta dal Riccardo Muti, tra i più profondi conoscitori del melodramma italiano e include brani dalle opere di Verdi, Bellini, Rossini, Puccini e Boito. Nella seconda parte fra gli autori compariranno anche Donizetti, Mascagni, Leoncavallo, Giordano e Bizet.
È difficile immaginare l’orchestra con la quantità così enorme di elementi e facile immaginare il compito arduo di un direttore chiamato a dirigerla; ma Riccardo Muti ci riesce. Da sempre Muti è il grandissimo interprete della musica di Verdi e nella serata veronese rimane fedele a sé stesso, la sua lettura delle celebri pagine corali – “Patria oppressa” da Macbeth e l’immancabile “Va’ pensiero” da Nabucco, uno dei simboli del Festival areniano – è in pieno rispetto della volontà dell’autore, precisa e trasparente; chapeau al maestro del coro areniano Roberto Gabbiani. Nella sinfonia di Norma l’anima di Muti apparentemente severa e volitiva si ammorbidisce e si schiarisce; sulla stessa scia è l’interpretazione dell’ouverture di Guillaume Tell, piena di dolcezza sublime, una vera festa per le orecchie. Si passa per le sonorità dolenti dell’Intermezzo di Manon Lescaut per concludere con parte del Prologo da Mefistofele. Non si ferma qui, il grande maestro, non lascia subito il palco, ma prende la parola per paragonare l’orchestra alla società: “Ci sono i violini, ci sono i violoncelli, le viole, i contrabbassi, i flauti, gli oboi, i tromboni, ecc. ecc. Ognuno di loro spesso ha parti completamente diverse, ma devono concorrere tutti a un unico bene, che è quello dell’armonia di tutti”.
Nella seconda parte la bacchettapassa nelle mani del bravo e da sempre attento alle esigenze dei cantanti Francesco Ivan Ciampa, che, infatti, se la cava con onore con il difficile compito. Per quanto riguarda il cast vocale, si apprende che Anna Netrebko non ne farà parte, cosa che passa quasi inosservata perché la lista di cantanti bravi e carismatici è davvero imponente. La parata viene aperta da Luca Salsi, uno dei più importanti baritoni d’oggi. Il cantante proveniente dalle terre verdiane fa una bellissima figura nel “Te Deum” che conclude il primo atto della Tosca pucciniana; una volta gli si poteva rimproverare poca classe e una certa rozzezza che mettevano alcuni dubbi riguardo la sua interpretazione del ruolo del capo della polizia romana: oggi tutto superato brillantemente. L’affascinante mezzosoprano Aigul Akhmetshina venuto dalla Repubblica di Baškortostan e già entrato nella storia come la Carmen più giovane al Covent Garden di Londra, affascina con un canto sensuale in “Les tringles des sistres tintaient” del secondo atto dell’opera di Bizet, piano piano elaborando le dinamiche sempre più coinvolgenti. Al suo fianco due voci giovani e cristalline di Sofia Koberidze e Daniella Cappiello. Eleonora Buratto canta “Un bel dì vedremo” da Madama Butterfly, suo cavallo di battaglia, sfoggiando una voce davvero bellissima, forse, la più bella tra i soprani odierni. Il suo canto è naturale, di una sensibilità profonda e dalla gamma ricchissima dei colori. Un contrasto profondo con il lirismo pucciniano viene creato da “Largo al factotum della città” dal Barbiere di Siviglia interpretato di Nicola Alaimo con scioltezza e brio, affiancati dalla sua simpatia irresistibile e dalla comicità intelligente; sembra che Figaro possa avere solo la voce e le sembianze del baritono siciliano. Riconosciuto il più carismatico dei tenori del giorno d’oggi, Jonas Kaufmann, che, come altre volte in cui l’avevamo sentito, funziona di più come grande interprete e attore e di meno come cantante. Da sempre si cimenta sia nel repertorio tedesco sia in quello italiano e le sue interpretazioni da sempre confermano che il primo gli è più consono. “E lucevan le stelle” da Tosca il suo fascino indiscusso ha un’ennesima conferma, ma il suo canto non procura il piacere all’orecchio di chi lo ascolta. La voce è troppo scura, o scurita in modo artificioso, l’espressività è notevole, ma l’emissione è dura e il legato discutibile. La scelta di Jessica Pratt di cantare “Casta diva” risulta vincente (da notare il taglio dell’introduzione strumentale, un vero peccato); rivela una Norma molto femminile e sensibile. L’energia particolare del soprano australiano, la lucentezza del suo timbro, le agilità totalmente rilassate fanno di lei una vera diva dell’opera dei nostri tempi. La giovane Rosa Feola non teme il confronto con la Pratt, anche il suo timbro è di una bellezza importante e sono perfetti la sua linea di canto e la sua sensibilità musicale che servono a dare vita agli ultimi istanti della povera schiava Liù che intona “Tu che nel gel sei tinta”. Il mitico Juan Diego Florez, secondo il nostro parere, avrebbe fatto meglio di cantare qualche brano rossiniano, ma sceglie “Che gelida manina” dalla Bohème; la sua sensibilità musicale e la parola espressiva lo salvano, ma per Rodolfo ci vorrebbe più sostanza. Va meglio in “La donna è mobile” cantata con incomparabili stile ed eleganza, ma pure qui la voce è un po’ troppo asciutta. Dall’interpretazione di Juliana Grigoriyan di “Quando me'n vo” diMusetta daLa Bohème l’amata “soubrette” pucciniana appare in tutta la sua grazia un po’ selvaggia; la linea di canto rispecchia la femminilità sconfinata del personaggio. Le succede il basso Gianluca Buratto che intona “Vecchia zimarra senti” dalla stessa opera con una sensibilità capace quasi di strappare qualche lacrima. Chi conosce Vittorio Grigòlo, il tenore dalla carriera e dal successo importanti, non batte il ciglio in presenza di troppa esuberanza e non poche urla mentre canta “Nessun dorma”, ma per un ascoltatore che da un interprete pretende una certa cultura musicale e un atteggiamento adeguato, Grigolo è un gigione, Arturo Toscanini chiamava questi personaggi. Deliziosa come sempre, Mariangela Sicilia che fa di “O mio babbino caro” un autentico gioiello, grazie allo spirito dolce d’ingenuità e al legato carezzevole. Brian Jadge, un tenore “muscoloso”, forse, non sufficientemente raffinato, ma dalla voce virile, bella e lucente, riscuote applausi meritati per la sua interpretazione passionale di “Vesti la giubba” da Pagliacci. Galeano Salas non teme “Di questa pira” dalTrovatore ed esce vincitore di questa sfida; bello il suo spirito eroico, il canto nitido e il “do” finale. Impegnato nella "Furtiva lagrima" dall'Elisir d'amore, Francesco Meli fa tornare in mente la figura di Jonas Kauffman, ascoltato poco prima: entrambi sono i tenori carismatici, entrambi le figure dominanti della scena operistica oggi, è, ahimè, entrambi con gli evidenti problemi vocali. È già annunciato il debutto di Meli in Otello, e chi ama e apprezza il tenore genovese, il fraseggiatore più raffinato dei nostri tempi, ha tutte le ragioni di sentirsi preoccupato. Ludovic Tézier non solo conclude questa parata vocale, ma ne risulta il migliore; la voce solida e dal bel timbro scuro è ideale per il personaggio orgoglioso e fosco di Gérard in Andrea Chénier, che appare, come per magia, dal suo legato intenso e il suo declamato sofisticato. Si finisce in bellezza con il Brindisi dalla Traviata intonato da Rosa Feola e Vittorio Grigòlo, che anche stavolta non tradisce la sua indole esuberante che lo porta a spingere e a sforzare.
C’è anche la presenza di due stelle del balletto italiano quali il “Roberto nazionale” (Bolle) e Nicoletta Manni di recente nominata l’etoile del Teatro alla Scala. Troviamo discutibile sia la presenza del balletto sia le scelte del coreografo di talento Massimiliano Volpini di far ballare sulla musica di Dies irae dal Requiem verdiano(è mai possibile un balletto eseguito sulla musica sacra?), mentre sono accettabili un assolo per Bolle sulle note dell’Intermezzo di Cavalleria rusticana e il passo a due di Manni e Bolle sulla musica del Coro a bocca chiusa da Madama Butterfly pucciniana.
Un progetto di tale caratura non può essere ideale e, infatti, potremmo rivolgere alcuni rimproveri ai suoi ideatori. Il primo va al concetto teatrale apparentemente casuale, alcuni brani sono eseguiti in pura forma di concerto, mentre gli altri appaiono come estratti dagli allestimenti areniani, con le rispettive scene e costumi. Il secondo va agli errori di pronuncia da parte dei presentator; in questi casi non si sa se ridere o piangere. Le vittime di tale incompetenza sono due tenori; si sono sentite chiaramente Uan e Flores al posto di Juan e Flórez nel caso del divo peruviano e il cognome storpiato dell’americano Brian Jadge; sarebbe stato il caso di prepararsi prima e non essere sospettati di una cultura insufficiente.
Alla fine, tutto sommato, la serata è capace di emozionare il grande pubblico, ma, se la formula dovesse essere riciclata, sarebbe il caso di abbreviarla e renderla più omogenea.