L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Un Ballo ‘made in Naples’

di Alberto Ponti

Trionfo annunciato per Riccardo Muti sul podio del Regio per l’opera verdiana in un nuovo, sfarzoso allestimento ambientato nella Napoli barocca e firmato da Andrea De Rosa. Compagnia di canto con luci e ombre

Torino, 27 febbraio 2024 - Sotto il cielo piovoso di Torino, la serata è di quelle che hanno il sapore dell’evento. Lo si capisce, prima ancora di accedere in sala, dal pubblico che si accoda diligente al guardaroba per depositare cappotti e ombrelli. Un tempo, lo si sarebbe definito trasversale a tutte le classi sociali. Ora le classi sociali tradizionali non esistono più, fatta eccezione per pochi estremi molto in alto o molto in basso che in statistica si escludono dal campione, e sono state sostituite da un’unica grande categoria liquida e informe: il colpo d’occhio cade su abiti di ogni foggia e colore, alcuni eleganti altri di gusto discutibile, su coppie dove la pettinatura di lei è audace e quella di lui demodé (o viceversa). Ci sono nonni entusiasti che già pregustano lo spettacolo con nipoti preadolescenti al seguito cui l’opera sembra interessare poco ma si dà pure il caso contrario di nipoti insopportabili e saccenti che, da piccoli musicologi in erba, tormentano con l’elenco delle arie famose il nonno di turno che sarebbe volentieri rimasto a casa a seguire la partita infrasettimanale di serie A in televisione. Si tratta della quarta rappresentazione, su sei totali, e manca quel tocco di mondanità tipico della prima, pur all’insegna del proverbiale understatement sabaudo. L’attesa è ovviamente tutta o quasi per lui: Riccardo Muti. Se per caso qualcuno se lo fosse dimenticato, a ricordarlo ci pensa il bel libretto di sala, di formato più ampio e sontuoso del solito, con la copertina in caratteri nero e oro che inquadra in passepartout un ritratto del direttore, mano sinistra sollevata e bacchetta nella destra. Giuseppe Verdi e il titolo compaiono in terza pagina. Nell’ottica di valorizzare uno tra gli appuntamenti clou della stagione, unica opera diretta in Italia in teatro nel 2024 dal maestro, ci sta anche questo. La sala è strapiena e si annovera qualche presenza estera, a beneficio del botteghino e della città.

L’aspettativa non è tradita dal momento che la direzione di Muti rivela la presenza di una forte personalità in un lavoro dove la scrittura del Verdi maturo è giunta a un elevato livello di raffinatezza e complessità, fin dal preludio, probabilmente l’introduzione strumentale più misteriosa e ai limiti dell’ineffabile dell’intero catalogo del compositore: non si assiste all’anticipazione del dramma ma a una raffinata stilizzazione dello stesso giocata quasi per intero su differenti sfumature di piano e pianissimo. Non è un caso che Čajkovskij, che nei confronti della musica di Verdi nutrì a lungo un rapporto ambivalente, amasse invece senza riserve proprio Un ballo in maschera.

La lettura di Muti è risoluta e sanguigna, con le filigrane strumentali bene in evidenza. Ottima la cura del timbro di ogni sezione dell’orchestra: le frasi striscianti dei contrabbassi hanno una precisa fisionomia, gli staccati degli strumentini nei passi di maggior fervore dei concertati non risuonano come riempitivo di colore ma sono integrati nel discorso sinfonico di un autore che nel 1859 aveva acquisito una statura europea, l’accompagnamento dell’arpa nel grande duetto del secondo atto tra Riccardo e Amelia assume un vero ruolo da protagonista. Allo stesso modo, il fraseggio tra cantanti, coro e orchestra è condotto con magistrale senso del teatro ed estrema varietà dinamica. Il rovescio della medaglia è dato invece da una mano eccessivamente calcata in termini di decibel in certi passaggi, a volere rimarcare un gesto scenico che è già insito nella musica di Verdi senza ricorrere a una poetica che sfiori il pompier, nonché da una lentezza distribuita qua e là un po’ in tutta l’opera, che talvolta, come nel quadro finale, aiuta a congelare l’azione rapinosa del libretto esaltandone la drammaticità, mentre altrove pare piuttosto conferire all’insieme una ieraticità abbastanza lontana dalle intenzioni del compositore. Si potrebbe pensare che, dall’alto della lunga esperienza di direttore del calibro di Muti, con pochi eguali nel panorama attuale, le scelte siano frutto di necessari bilanciamenti per far fruttare al meglio le risorse a disposizione. E, se da un lato l’orchestra del Teatro Regio e il coro guidato da Ulisse Trabacchin, ormai giunto a un livello eccelso, regalano alla platea una delle migliori performance della stagione, non altrettanto si potrebbe dire della compagnia di canto, improntata all’immortale precetto classico dell’aurea mediocritas. Perché, se è vero che si possono trovare in circolazione solisti con migliori corde vocali e physique du rôle, è altrettanto vero che mettere sul tappeto il meglio sul mercato per una messinscena lirica è compito invero arduo, e dipende non sempre dalla volontà degli organizzatori. Di conseguenza, a conti fatti, sarebbe ingeneroso tacciare di debolezza una compagine di solisti che, considerata nell’insieme, non sfigura certo, garantendo un ampio successo a questa rappresentazione.

Piero Pretti ricopre con sicurezza il ruolo di Riccardo, una delle parti per tenore più complesse e sfaccettate di Verdi, che si regge sulla continua oscillazione tra comicità leggera e profondità tragica, con un esito felice soprattutto sul secondo versante, dove il suo timbro tendente allo scuro emerge sia nel gioco allo scoperto come nell’aria del terzo atto ‘Ma se m’è forza perderti’, sia tra le maglie della tessitura vocale nei grandi momenti collettivi, su tutti i finali primo e terzo e il terzetto con Renato e Amelia ‘Tu qui? Per salvarti da lor’. Ciò che manca a tratti, per dare pieno sapore a un’emissione rotonda e robusta, è la verve brillante, tanto più importante per far presagire che si sta camminando sul bordo del precipizio in un’azione che procede spedita verso l’irreparabile, quando il protagonista canzona Ulrica nel predirgli il futuro o all’inizio della scena finale che dà titolo all’opera.

La russa Lidia Fridman, nella parte di Amelia, impressiona per la potenza del canto che le garantisce una formidabile tenuta nel lungo duetto del secondo atto ‘Teco io sto’, tra i sublimi esiti dell’ispirazione verdiana, anche se l’impronta sopranile è decisamente stentorea e sovente a malpartito nei punti in cui la partitura prescriverebbe un canto a mezze tinte e ricco di finezza psicologica. Al pari di un poderoso motore diesel dall’energica coppia motrice la sua prestazione è in netto crescendo e, se nel primo atto aveva lasciato perplessi nel terzetto successivo alla sua entrata, nel finale si guadagna un’ovazione a scena aperta con la celebre aria ‘Morrò, ma prima in grazia’ dove, sebbene alieno da sentimentalismo, il timbro guadagna una dolcezza fino allora sconosciuta.

Pungolato da una fastidiosa indisposizione, non ancora lasciata alle spalle nella recita in questione, il Renato di Luca Micheletti era ben centrato sotto il profilo del personaggio ma, per quanto riguarda l’aspetto musicale, in parte da risolvere. Una avvertibile uniformità di espressione penalizzava il ruolo dell’antagonista di Riccardo nei confronti del quale, sotto il piano musicale, è parso ridimensionato. Ed è un peccato per un baritono dotato di eleganza naturale e voce morbida e vellutata, che in‘Eri tu che macchiavi quell’anima’ sfodera accenti di commovente espressione e che attendiamo in future prove a tutto tondo.

Perfettibile in particolare nel registro basso è pure il mezzosoprano ucraino Alla Pozniak. La maga Ulrica compare solo nel secondo quadro del primo atto ma la partecipazione a un’altra pagina memorabile come il quintetto ‘È scherzo od è follia’ la rende un tassello fondamentale nell’economia dello spettacolo.

Note molto positive per Oscar interpretato con spigliatezza contagiosa dal soprano Damiana Mizzi e dal Silvano del baritono Sergio Vitale, seguiti dal duo di bassi Daniel Giulianini e Luca Dall’Amico, rispettivamente i congiurati Samuel e Tom, e dal tenore Riccardo Rados, nella duplice veste di giudice e servo d’Amelia.

Suggestiva e sontuosa nell’ambito di un nuovo allestimento del Regio, la regia di Andrea De Rosa, che si avvale delle scene di Nicolas Bovey, dei costumi di Ilaria Ariemme e delle luci di Pasquale Mari, si mantiene nel solco di un tradizionalismo rispettoso delle indicazioni del libretto. Nel primo e terzo atto ci si ispira per il palazzo di Riccardo alla Napoli barocca, unica licenza a una storia ambientata negli Stati Uniti ma, come dimostrano i cambiamenti e le vicissitudini imposte dalla censura ai tempi di Verdi, l’ambientazione geografica del Ballo in maschera, nuovo o vecchio mondo che sia,è al più una nota di colore rispetto alla centralità della vicenda umana. Siamo lontani dal mare di un Simon Boccanegra o dagli esotismi di impronta letteraria di un’Aida. Nel secondo atto, viceversa, l’’orrido campo’ di Amelia si trasforma in un vuoto desolato popolato di corpi inerti accasciati al suolo creando un’immagine disturbante di forte impatto emotivo. Per contro i movimenti dei cantanti e delle masse sono abbastanza statici e convenzionali e, quando il palcoscenico è affollato, finiscono per penalizzare la dovizia dell’impianto scenico.

Trionfo annunciato per un Riccardo Muti apparso in gran forma, che ha garantito l’effetto a cascata sull’intera serata. Platea e palchi elettrizzati con qualche effetto da situazione disperata ma non seria. Quando Ulrica dopo ‘Re dell’abisso’ invoca per due volte ‘Silenzio!... Silenzio!’ sostenuta solo dalle sporadiche note in pianissimo degli archi, si diffonde per la sala lo squillo prolungato e ininterrotto di un cellulare.


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