Gusto francese
All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia tornano Jakub Hrůša e Beatrice Rana in un applauditissimo concerto di musica francese, dal tardo Ottocento fino ai giorni nostri. In una studiata Ringkomposition, infatti, le due suite de L’Arlésienne di Geroges Bizet aprono e chiudono la serata, facendo da cornice a due concerti: il Concerto in sol maggiore per pianoforte e orchestra di Maurice Ravel e il Concertino per pianoforte e orchestra di Éric Montalbetti, ambedue magnificamente eseguiti dalla Rana.
ROMA, 28 marzo 2025 – È difficile quantificare quello che potremmo definire il soft power della cultura e della musica francese a cavallo fra i due secoli. Parigi era una calamita per gli artisti di ogni parte d’Europa, che, venendo gli uni a contatto con gli altri, diedero vita a istanze di rinnovamento estetiche i cui frutti migliori si possono cogliere in tutti i compositori le cui opere sono state eseguite nei concerti della scorsa settimana all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. A dirigere questo equilibrato quanto appetibile concerto è stato Jakub Hrůša, che propone al pubblico un’intrigante organizzazione dei brani: la serata inizia e termina, infatti, con le due suite tratte dalle musiche di scena de L’Arlésienne di Georges Bizet.
La suite n. 1, quindi, apre la serata. L’orchestra è in grande spolvero, al solito; il suono è a dir poco splendido. Hrůša possiede un gesto essenziale, scarno, ma morbido, il che fa in modo che l’esecuzione dei cangianti ritmi, dei volumi pulsanti, come pure delle timbriche provenzali de L’Arlésienne emerga vivido. Il Prélude, con la sua indimenticabile marcia, riesce piacevole, fatto di passaggi bruniti e variazioni tematiche di sapore popolare. Il Minuetto si apprezza soprattutto per l’argentino suono dell’orchestra, che fa la differenza. Il direttore tocca vellutato l’Adagietto, quasi un intermezzo; nel Carillon finale il direttore non esagera mai nella scansione ritmica, salvando l’incedere coreutico del pezzo – si sarà notata, poi, la melodia centrale, dal gusto schiettamente montano. Insomma, se ne trae l’impressione di un’esecuzione riuscita e, certamente, lo è, ma la lettura di Hrůša rimane in una dimensione arcadica, togliendo possibili effetti di realismo, che avrebbe giovato al colore complessivo. Si procede con il primo concerto della serata, introdotto dall’interprete, Beatrice Rana, che spiega al pubblico la genesi e l’estetica del Concertino per pianoforte e orchestra di Éric Montalbetti, che, come recita il sottotitolo, è un “Omaggio a Luciano Berio”. Montalbetti, infatti, è stato un allievo di Berio e con questo pezzo ha voluto omaggiare il suo maestro nel centenario dalla nascita (1925). Ciò che rende speciale questa esecuzione è anche il fatto che si tratta della prima italiana e che la pianista cui è affidato ne è anche la dedicataria. Per comprendere l’essenza stessa del concerto, bisogna tenere a mente che – come ha scritto S. Zenni, nel programma di sala – «Montalbetti ha voluto evocare in ogni episodio le qualità del materiale roccioso: la durezza e la varietà della superficie, l’appoggio solido che offre al movimento vivace degli stambecchi, il cuore granitico e statico». Il Larghetto iniziale stupisce il pubblico per gli effetti spigolosi e rocciosi resi con le dissonanze del pianoforte, amplificate da luminescenti effetti orchestrali; Beatrice Rana dimostra subito le sue doti straordinarie, innanzitutto nella coerenza del timing, non slabbrando mai rispetto all’agogica impostata dal direttore, ma soprattutto nella sensibilità del fraseggio, resa ancor più ardua dai continui inasprimenti del dettato – atti ad evocare, appunto, la superficie rocciosa. L’abilità virtuosistica dell’interprete può brillare liberamente nel rapido movimento centrale (Toccatina): eccellenti i giochi ritmici, le improvvise accelerazioni, la gestione delle dinamiche, l’armonia con i cromatismi dell’orchestra, tanto fantasiosi da sembrare quasi estemporanei. L’ultimo movimento ha sonorità più sensuali. Montalbetti si abbandona a una scrittura che arriva quasi a punte estatiche. Il pianoforte si increspa su veli orchestrali, l’essenza è il tocco, di cui Beatrice Rana è maestra; il tutto si giova della quadra di una direzione di Hrůša eterea, impalpabile. Il battesimo del Concertino di Montalbetti è riuscito: direttore, pianista e compositore si prendono i meritati applausi.
Speculare rispetto al primo, il secondo movimento inizia con un concerto, quello di Maurice Ravel. Pietra miliare del pianismo novecentesco, riuscito soprattutto per il suo inimitabile gusto sincretico che accosta l’olimpica facilità melodica dei concerti di Mozart e Saint-Saëns alla brillantezza quasi sfrontata del blues e del jazz, il Concerto in sol è forse il pezzo forte della serata, non deludendo le aspettative. Fin dal I movimento, Hrůša sfodera una direzione brillantissima, forte di un’orchestra eccellente, facendosi trascinare dalla proteiforme fantasia di Ravel che fagocita, allo stesso tempo, Gershwin e Stravinskij; ciò che ne viene fuori è una scrittura pianistica spumeggiante e raffinata, letta come meglio non si potrebbe dalla sensibilità di Rana, interprete particolarmente versata nell’espressività. Testimonianza inconfutabile è l’indimenticabile Adagio assai (II), che si apre con una pura melodia del pianoforte, un assolo lirico che è delibato dal dolce fraseggio della Rana. Qui l’interprete ottiene l’effetto di un’intima semplicità, un omaggio alla più ispirata scrittura mozartiana, che si fonde fruttuosamente con la sensualità, tutta raveliana, dell’orchestra: il trillo finale, che sfuma perlaceo in un filato etereo, rimarrà impresso nella memoria di chiunque era in sala. Il III movimento dimostra ancora l’eccellente intesa fra direttore e interprete. Hrůša ha l’arduo compito di sbandolare una matassa di ritmi, effetti cangianti, ostinati, poliritmie; la Rana quello di risultare aerea, ma materica nel dato sonoro, rapida, ma non superficiale: ambedue colgono nel segno. Gli applausi invadono copiosi la sala; la Rana si congeda con due bis quantomai in sintonia con il mood della serata: prima Claude Debussy, con l’aquatico Étude n. 6 “Pour les huit doigts” dal primo libro dei Douze Études, poi la fiabesca trascrizione pianistica della Valse des flocons de neige dallo Schiaccianoci di Čajkovskij. Il concerto si chiude, in Ringkomposition, con la suite n. 2 da L’Arlésienne. Rispetto alla suite n. 1, forse, Hrůša fa sentire maggiormente il carattere della musica di Bizet. Pastorale ed Intermezzo risultano, dunque, decisi, ben scontornati. Menuet – di fatti una sorta di prova generale del terzo Entr’acte di Carmen – ha più espressività, non solo nella dolcezza dell’assolo del flauto, ma anche nella scrittura coreutica a tutta orchestra, figlia del miglior Berlioz della Fantastique. La serata si chiude sugli applausi per una trascinante Farandole, indimenticabile per gli effetti che Bizet sa creare intrecciando un tema sferzante, dal sapore epico, con una marcia, abbellita dai legni.
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