L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Nella mente di Amleto

di Antonino Trotta

Al Teatro Regio di Torino, l’Hamlet di Thomas prende vita in un allestimento che fonde eleganza visiva e intensità emotiva. Con la direzione musicale di Jérémie Rhorer e le interpretazioni di John Osborn e Sara Blanch, la messa in scena di Spirei esplora la complessità del personaggio, offrendo uno spettacolo denso e vibrante, in equilibrio tra introspezione e pathos tragico.

Torino, 15 maggio 2025 – C’è una solitudine più amara della morte: sopravvivere a ciò che ci ha distrutto dentro. Nell’Hamlet di Ambroise Thomas, è vero, il principe di Danimarca non muore, ma la sopravvivenza che il fato gli accorda ha il sapore di una spietata punizione. Resta, nella luce spettrale dell’ultima scena, come un sopravvissuto a una guerra invisibile, combattuta non sul campo, ma nel profondo della sua psiche. Perché il dramma di Amleto è anche questo: non solo la vendetta, non la morte, ma il peso schiacciante di un’eredità che lo inchioda, di un padre che lo chiama a essere ciò che non sa, non può o non vuole diventare. Così, la storia di Amleto si trasforma in una lenta discesa in un mondo in cui il nume della ragione è condannato a consumarsi come una candela tremolante e incerta, in cui gli affetti si sgretolano sotto il peso del sospetto, e l’esistenza si deforma in un labirinto mentale dove il confine tra realtà e allucinazione si fa più che mai labile. Ogni certezza vacilla, ogni gesto si tinge di ambiguità, e la mente, invece di offrire rifugio, si trasforma nel teatro stesso della tragedia, specchio infranto di un’identità in frantumi. In questo spazio distorto, egli si muove come un’ombra inquieta, prigioniero di visioni che somigliano troppo alla verità e di verità che appaiono come sogni malati. Il fallimento di Amleto, però, non è spettacolare: è quotidiano, silenzioso, profondamente umano. Ci invita a guardarci dentro, a riflettere sulla nostra solitudine e passività, a interrogarci su quanto anche noi, come lui, siamo prigionieri di aspettative e paure che ci impediscono di agire, di accettare, di trovare un senso in un mondo sempre più fragile e incerto. Essere o non essere, insomma, questo è il dilemma.

E proprio questa tensione tra conoscenza e smarrimento sembra riflettersi nei figuranti intenti a leggere che, nerovestiti, popolano con grande eleganza la scena prim’ancora che l’opera abbia inizio. Sembrano esortarci a leggere la tragedia con attenzione, a coglierne gli insegnamenti più profondi, spronandoci a non ripetere gli stessi errori. E al tempo stesso citano il testo originale, in cui si vede Amleto intento a leggere, nel celebre scambio con Polonio: «What do you read, my lord?» / «Words, words, words.». Un gesto all’apparenza semplice, ma carico di ambiguità: leggere è rifugiarsi, meditare, forse perdersi. È un atto che suggerisce introspezione, ma anche solitudine; ricerca della verità, ma anche il rischio di esserne travolti. Così, quei corpi silenziosi assorti nella lettura diventano l’eco visiva di una condizione mentale: quella di chi cerca risposte in un mondo che ne offre sempre meno, finendo per smarrirsi tra parole, parole, parole.

Nell’eccezionale allestimento firmato da Jacopo Spirei, ora in scena al Teatro Regio di Torino, la tragedia di Amleto si fa visione sospesa, incubo lucido, riflessione incarnata su destino, identità e smarrimento. Nello spazio gotico e decadente, di grande bellezza, ideato da Gary McCann e illuminato a regola d’arte da Fiammetta Baldiserri, il sottilissimo confine tra reale e immaginario si fa potentissimo elemento drammaturgico, capace da solo di evocare il tormento interiore del protagonista. Al suo interno, i movimenti coreografici di Ron Howell, che segnano l’akmè dello spettacolo nella scena della pantomima – di straordinaria teatralità –, esasperano la tensione latente, trasformando ogni gesto in un segnale di inquietudine o disperazione, ogni apparizione in una minaccia, ogni presenza in un’ombra. La coralità dei figuranti, magnificamente vestiti da Giada Masi, diventa così una massa pulsante, ora meccanica, ora febbrile, che riflette lo stato emotivo di Amleto e amplifica la sensazione di un mondo sull’orlo del disfacimento. Spirei si avvicina al testo con piena contezza di mezzi e idea, costruendo un viaggio nell’inconscio del protagonista che procede spedito senza attimi di cedimento, carico di immagini, simboli e suggestioni che non stravolgono il flusso narrativo, anzi lo arricchiscono con intelligenza, virtuosismo registico e misura. La sua regia evita ogni compiacimento o sovrainterpretazione, scegliendo invece di abitare la materia shakespeariana con rispetto profondo e tensione contemporanea, capace di parlare al pubblico di oggi senza tradire lo spirito originario. Certo, un meccanismo tanto ben ragionato impone qui e là qualche sacrificio – si taglia, ad esempio, il coro del celeberrimo quarto atto, che effettivamente avrebbe stemperato, coi suoi modi pastorali, l’atmosfera onirica e visionaria costruita per avvolgere la scena della pazzia di Ofelia –, ma il risultato è uno spettacolo intenso, stratificato, appassionante, che riesce a restituire tutto il peso esistenziale del dilemma amletico e la vertigine di una mente sul punto di frantumarsi.

Non meno accattivante, in buca, il lavoro di Jérémie Rhorer che guida con autorevolezza l’Orchestra del Regio e un Coro in stato di grazia, preparato con la consueta cura estrema da Ulisse Trabacchin. Trasparente nella resa di una partitura che impegna i complessi sabaudi in diversi assoli, la concertazione di Rhorer, incendiaria e ben nutrita sul versante dinamico e agogico, appare più incline a sottolineare l’elemento conflittuale della drammaturgia musicale che l’abbandono lirico – il quale, specie nella grande scena di Ophélie, non avrebbe guastato –, privilegiando un respiro teatrale ampio, teso, attraversato da slanci drammatici che danno forza e coerenza alla narrazione. Ne consegue, in definitiva, una lettura densa, moderna e profondamente consapevole della specificità di questo Amleto ottocentesco, in bilico costante tra introspezione psicologica e gesto tragico.

Riconquistata la corda tenorile inizialmente pensata da Thomas – qui si propone, appunto, la versione originale dell’opera –, Hamlet può rivivere attraverso la voce e la sensibilità di un autentico fuoriclasse. Pur impegnato in una scrittura piuttosto centrale che non dà grande spazio a slanci pirotecnici, John Osborn sa scavare nel personaggio con intelligenza musicale e profondità espressiva, restituendo ogni sfumatura emotiva con controllo impeccabile, fraseggio scolpito e una tavolozza timbrica ricchissima. Il suo Amleto è tormentato ma mai nevrotico, malinconico ma non spento: un uomo lacerato che cerca senso nel caos, e che Osborn incarna con magnetismo scenico e una vocalità sempre a fuoco, capace di coniugare eleganza stilistica e forza drammatica. Al suo fianco, l’Ophélie di Sara Blanch incanta per purezza vocale, musicalità raffinata e una presenza scenica di evidente carisma. Il timbro adamantino, l’ottima confidenza con l’acrobatismo vocale e il controllo nel canto sfumato le permettono di affrontare la celebre scena della pazzia con una delicatezza quasi irreale, sempre lucida, mai stucchevole. Mantenendo ovunque una linea vocale coerente e scolpita, ella incarna un’Ofelia fragile ma mai evanescente, che lascia un’impronta emotiva fortissima, mietendo calorosissime ovazioni a scena aperta. Clémentine Margaine è una Gertrude di gran temperamento, qui immaginata – dal regista e quindi da Amleto stessa, come matrona insensibile e autoritaria: caratteristiche che lo strumento corposo e voluminoso, seppur non sempre omogeneo nell’emissione, evidenzia con incredibile schiettezza. Riccardo Zanellato, nel ruolo di Claudius, è un re di grande eleganza, capace di conferire al personaggio di questo spietato fratello una presenza autoritaria e un cinico savoir-faire. Julien Henric è un Laërte di lusso, Alastair Miles uno spettro efficace nelle intenzioni ma vocalmente provato probabilmente da un’indisposizione non annunciata. Alexander Marev (Marcellus), Tomislav Lavoie (Horatio), Nicolò Donini (Polonius), Janusz Nosek (primo becchino) e Maciej Kwasnikowski (secondo becchino) completano l’eccellente parterre vocale.

Accoglienza trionfale per tutti. Sul finire della stagione il Teatro Regio di Torino ha alzato il sipario sul suo spettacolo più bello. Non perdetelo.

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