Manon: i film
di Antonino Trotta
Puccini e Massenet si rincorrono a breve distanza nell'ambiziosa trilogia dedicata all’iconico personaggio di Manon Lescaut, che inaugura con originalità la stagione 24/25 del Teatro Regio di Torino. Gli spettacoli ideati da Arnaud Bernard, con il cinema francese quale Leitmotiv dell'intero progetto, convincono, pur con qualche dovuto distinguo, pienamente; direttori d’orchestra di sicura esperienza e solidi professionisti chiudono, infine, il cerchio.
Torino, 5-6 ottobre 2024 – Nata dalla penna dell’abate Antoine François Prévost, Manon Lescaut è una delle figure femminili più affascinanti, seducenti e complesse della letteratura settecentesca. Ritratto imperituro di una donna che incarna desiderio, bellezza e contraddizione umana, Manon è simbolo di quell’arco fulmineo che si tende tra sogno e realtà. Spirito perennemente inquieto, è sospesa tra l'innocenza e la perdizione, tra il desiderio d’amore e la smania del lusso, animata da un’insaziabile sete di libertà e piacere, ma intrappolata in un destino tragico che consuma lei e tutto ciò che tocca. Compositori di epoche diverse come Auber, Massenet e Puccini, ispirati dalla sua storia, l’hanno resa immortale sulle scene dell’opera, ciascuno interpretando, con sensibilità diversa, il suo complesso fascino. Oggi, questi grandi maestri tornano insieme sulle tavole del Teatro Regio di Torino per esplorare, nell’ambito dell’ambiziosa trilogia Manon Manon Manon, le molteplici sfaccettature dell’iconico personaggio di Manon.
Leitmotiv dell’encomiabile progetto inaugurale, affidato all’ingegno del regista francese Arnaud Bernard, è il cinema d’oltralpe, massimo comune divisore di tre messinscene che sfruttano o subiscono l’elemento cinematografico in maniera differente.
Nella Manon Lescaut di Puccini, primo dei tre titoli a svelarsi al pubblico, il cinema, in particolare quello degli anni Trenta legato alla corrente del realismo poetico, si inserisce nella narrazione operistica sì, ma principalmente come una raffinata e inerte cornice, senza mai evolversi in un autentico motore teatrale. Cavalletti, fari e operatori ai margini delle scene suggeriscono l’idea di un set; qua e là, all’inizio o alla fine di una scena, si proiettano spezzoni di pellicole più o meno note, vuoi per riempire i tempi tecnici, vuoi per accentuare il distacco tra realtà e finzione, senza che però questo divario sembri rispondere a una vera esigenza drammaturgica. Il rischio, inoltre, con questo tipo di scelte, è quello di incorrere nel fastidioso effetto déjà-vu, specie quando si percorre una strada già così ampiamente battuta: senza andare troppo indietro nel tempo né troppo lontano, le somiglianze con la recente Fanciulla del West sono piuttosto evidenti – sia nell’architettura delle scene sia nell’uso delle masse –; basta confrontare, a memoria, i due atti primi. Detto ciò, lo spettacolo nel suo complesso fila liscio: le scenografie, curate da Alessandro Camera, e i costumi, disegnati da Carla Ricotti, dominati dal bianco e dal nero, a cui le luci di Fiammetta Baldisseri conferiscono nuance e sfumature sofisticate, assicurano all’allestimento un’eleganza perfettamente in sintonia con la cornice in cui è inserito, fatta eccezione per l’ultimo atto, piuttosto scialbo. Bernard, inoltre, conosce bene il mestiere: anche laddove l’idea risulta solo parzialmente convincente, la realizzazione non lascia mai spazio a dubbi.
Un esito ben diverso è da segnalare per la Manon di Massenet, che sul palco del Regio si impone come un piccolo capolavoro – anche in questo allestimento per i costumi, le scene e le luci vale si ribadiscono gli elogi fatti in precedenza –. Per raccontare una Manon più fragile, delicata e profondamente francese, Bernard si affida ora a La Vérité di Henri-Georges Clouzot, un film degli anni Sessanta con Brigitte Bardot nel ruolo di Dominique Marceau, femme fatale in processo per l'omicidio del suo ex fidanzato Gilbert Tellier. Le storie di Manon e Dominique si intrecciano in un unicum cine-teatrale, in cui la narrazione si muove fluidamente dal proscenio al grande schermo, sotto gli occhi inflessibili di una giuria che troneggia su un imperioso scranno eretto sul fondo della scena. Sul palcoscenico, Manon diventa Dominique – accusata, quindi, dell’omicidio di Guillot, fatto freddare a colpi di rivoltella – emulando i suoi vezzi e i suoi vizi, con ogni quadro che si presenta come la naturale prosecuzione di ciascuna scena del film. L’elemento cinematografico, dunque, si fa qui elemento drammatico pregnante e denso, divenendo mezzo e non più fine della lettura registica, colonna portante e non semplice ammennicolo di uno spettacolo che rapisce il pubblico atto dopo atto.
Pietre angolari di questa monumentale impresa sono i complessi del Teatro Regio di Torino, compagini sempre d’altissimo livello, capaci di transitare da un’opera all’altra, da uno stile all’altro, da una lingua all’altra, senza fatica né cedimenti. Vanno lodati, pertanto, l’Orchestra del Teatro, ovunque scintillante e duttile, titanica e corposa con Puccini, sinuosa e vellutata con Massenet, e il Coro del Teatro Regio di Torino, istruito dal maestro Ulisse Trabacchin, protagonista eccelso sul piano vocale e attoriale.
Sul podio si alternano bacchette di grande esperienza. A dirigere i regi complessi in Manon Lescaut è chiamato Renato Palumbo, che offre, con il suo Puccini, una lettura ardente e carica di pathos. Interessato al ricco dettato, vibrante nelle aperture liriche, concitato e corrusco là dove la partitura si apre in lande di disperata desolazione, Palumbo impone all’orchestra sonorità piene e intense, talvolta a scapito dell’equilibrio con il proscenio. Ma è un bel sentire, per cui non ci crucciamo. Per Massenet, invece, Evelino Pidò segue una strada più cauta e misurata. Interprete molto fine, attentissimo alle linee e ai preziosismi strumentali, alle dinamiche e al fraseggio della buca, alla serena convivenza con il palcoscenico, regala al pubblico torinese una concertazione in punta di fioretto, priva di languori e sbrodolamenti – e ogni tanto di nerbo – intenta a mettere a fuoco il dramma più nel dettaglio musicale imminente che nella totalità dell’arcata.
Solidi professionisti figurano sulle locandine di entrambe le serate.
Manon Lescaut, sul piano strettamente canoro, non desta elettrizzante stupore. Erika Grimaldi, nel ruolo del titolo, delinea una Manon sofferta, inquieta, tesa, appunto, come si scriveva all’inizio, tra spirito e carnalità. Vocalmente centrata, risolve con sicurezza tutte le insidie della scrittura, facendosi apprezzare specialmente per le sfumature a corredo di un fraseggio lineare e garbato. Manca però mordente nel canto di conservazione, sacrificato a vantaggio di un’emissione sempre appoggiata e controllata, e un po' di forza drammatica in quelle pagine che altrimenti scivolano via senza brivido alcuno. Al suo fianco ritroviamo, al posto del previsto Roberto Aronica, il Des Grieux di Carlo Ventre, che s’impone all’ascolto per la baldanza dello strumento, la brillantezza dello squillo e, purtroppo, un po' di avarizia sul piano dinamico che imbalsama il personaggio dall’inizio alla fine. Ecco allora che il Geronte di Carlo Lepore, campione di fraseggio scolpito e canto sulla parola, appare come manna scesa dal cielo. Fa molto bene anche Alessandro Luongo, Lescaut statuario e istrionico. Ottimi i comprimari: Giuseppe Infantino (Edmondo), Didier Pieri (lampionaio/maestro di ballo), Reut Ventorero (musico), Janusz Nosek (sergente degli arcieri/oste), Lorenzo Battagion (comandante di marina), Pierina Trivero, Manuela Giacomini, Giulia Medicina e Daniela Valdenassi (madrigalisti).
Più coinvolgente è la squadra che fa vivere l’opera di Massenet. Ekaterina Bakanova, nei panni di Manon Bardot, è una protagonista decisamente charmante e carismatica: interprete sensibile, artista partecipe e vocalista agguerrita, seppur non sempre impeccabile, riesce a gestire la complessa parte in cui intimo lirismo e guizzante virtuosismo si mescolano in una scrittura poetica e febbrile, dimostrando le proprie qualità di cantante e attrice. Molto bene anche Atalla Ayan, che interpreta Des Grieux con un timbro limpido e un’emissione nobile. Più a suo agio nelle aperture liriche che negli slanci di carattere, Ayan riesce a creare la giusta alchimia con la protagonista, costruendo nel duetto un momento di palpabile intensità. Si distinugono Björn Bürger, un aitante Lescaut dal timbro chiaro e corposo, Roberto Scandiuzzi, un Conte Des Grieux dal canto aristocratico, e Thomas Morris, un Guillot vocalmente e scenicamente credibile. Completano correttamente il folto cast Allen Boxer (Monsieur de Brétigny), Ugo Rabec (oste), Olivia Doray (Poussette), Marie Kalinine (Javotte), Lilia Istratili (Rosette), Alejandro Escobar (guardia), Leopoldo Lo Sciuto (guardia), Roberto Miani (mercante/portiere di Sulpice/una voce), Franco Rizzo (M. de Chansons/secondo giocatore), Giovanni Castagliuolo (M. de Elixir/un giocatore/primo giocatore), Andrea Goglio (cuoco/voce fuori campo/un giocatore) e Junghye Lee (una commerciante).
Gli applausi calorosi ed entusiasti di un pubblico presente in misura diversa – più seguito per la replica di Manon Lescaut domenicale della prima di Manon di sabato sera – rendono il giusto tributo al lavoro scrupolosamente condotto dal Regio di Torino. Anche quest’anno, della nostra inaugurazione di stagione, si può essere orgogliosamente fieri.