L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il richiamo del mare

di Luigi Raso

Un cast eccellente (Tézier, Pertusi, Rebeka, Meli) garantisce il successo di Simon Boccanegra al Teatro di San Carlo di Napoli.

NAPOLI, 11 ottobre 2024 - A teatro gli applausi sono come i clienti: hanno sempre ragione! Una decina di minuti di acclamazioni finali, un’ovazione per Ludovic Tézier, apprezzamenti convinti e calorosi per tutto il cast; giudizi positivi per direttore d’orchestra, Orchestra e Coro del San Carlo.

Si può così riassumere il successo tributato alla ripresa, in forma di concerto, di Simon Boccanegra al San Carlo.

Sì, ancora una volta si ripete lo strano fenomeno - già riscontrato al San Carlo in occasione di Sonnambula, Rigoletto, Macbeth, Beatrice di Tenda, produzioni di cui è stato dato conto in questa rivista - di calorosissimi e convinti apprezzamenti per opere eseguite in forma di concerto. Sul perché questo fenomeno puntualmente si ripete, ognuno avrà la propria opinione/convinzione. Qui ci si limita a registrare un dato, un binomio (opera in forma di concerto/successo caloroso) che puntualmente si ripete.

Tornando al concreto, già sulla carta il cast vocale, per Simon Boccanegra tra i migliori oggi ipotizzabili e tra i più complicati (se non altro per i tanti impegni delle star liriche coinvolte nel progetto) da schierare in palcoscenico; alla prova dei fatti, le aspettative risultano appagate. L’esecuzione in forma di concerto, seppur corredata da parchi movimenti scenici suggeriti dall’istinto - quasi mai errato - degli artisti e dalla scena, di cui diremo dopo, firmata dall’archistar giapponese Kengo Kuma, riporta la musica e il canto al centro dell’attenzione. E così si resta abbagliati e ammaliati dalla sontuosa vocalità e dall’interpretazione sfumata e sofferta di Ludovic Tézier nei panni del Doge genovese.

A Tézier basta poco sia per mettere a punto la sua sfolgorante macchina vocale sia per calarsi nei panni del padre/Doge di Genova. Del baritono francese, che padroneggia meravigliosamente l’idioma italiano, impressionano la tenuta vocale, costante per l’intera durata della parte, la bellezza, la compattezza e la ricchezza di armonici, la lucentezza e la precisione degli acuti, la linea di canto, prodiga di accenti, inflessioni, rarefazioni sonore e colori; ad emozionare, poi, è la sua capacità di interprete, quel cercare il giusto colore musicale per ciascuna frase, l’espressività in ogni legato, la veemenza nell’invocazione alla concordia e alla pace, il ribrezzo verso il traditore. L’atto III, dalla Scena III (da “M’ardon le tempia..), è un miracolo teatrale in un capolavoro, un condensato di emozioni che solo Giuseppe Verdi avrebbe potuto esprimere: ebbene, dall’apostrofe al mare di Simone Ludovic Tézier dà l’impressione di proiettarsi in un’altra dimensione, trascendente, onirica, suggellata dalla rarefatta invocazione in pianissimo “Maria”, ultime note e respiri del Doge. Il duetto finale con Fiesco, un Michele Pertusi per il quale è sempre più complicato trovare termini per descrivere la statura dell’artista, diventa un commovente caleidoscopio delle emozioni umane: in questi pochi minuti sono condensate e si confrontano due vite. Tézier e Pertusi danno voce al loro bagaglio di odi, vendette, incomprensioni e riappacificazione. Nel finale, il baritono francese diventa un Simone che è altro, per ricerca timbrica, accenti e introspezione psicologica, rispetto a quello conosciuto e ascoltato nel Prologo e nei due atti precedenti: una scultura che è stata smussata, raffinata e che si incammina verso la rarefazione. Simon Boccanegra e Tézier: un binomio che emoziona, convince e da cui si resta ammirati. Peccato, dunque, ma si dirà meglio in seguito, che a questi due scultorei personaggi in scena faccia da contraltare l’accompagnamento orchestrale di Michele Spotti ben poco partecipe all’intensità del momento.

Michele Pertusi è uno di quegli artisti che ad ogni ascolto, seppur incastonato nell’inesorabile fluire del tempo e nella diversità dei repertori, ci illustra il significato del termine artista: la sua interpretazione di Fiesco è una lezione di canto e stile verdiano, un’illustrazione didascalica su come costruire un personaggio ed entrare nelle sue vesti, anche se qualche elemento risulta di meno agevole realizzazione. Michele Pertusi ha una personalità musicale e artistica così tanto pronunciata e luminosa che è in grado di rischiarare anche gli antri più ombrosi di un registro grave non spesso come la scrittura di Fiesco richiede; ma la finezza dell’interprete, il suo dar peso e consistenza alla parola scenica, l’attenzione al fraseggio e alla costruzione di un personaggio umanissimo sin dall’addolorato “Lacerato spirito”.Pertusi scolpisce un uomo altero, sconquassato dal dolore, sofferenza che si sublima, al pari del Simone di Tézier, nel coinvolgente e lacerante duetto finale, la gemma più fulgida di questa pregevole esecuzione.

Sono immaginabili, e comprensibili, l’emozione e la tensione che Mattia Olivieri deve aver provato nel condividere il palcoscenico con due autentici cavalli di razza come Pertusi e Tézier: il suo Paolo Albiani, infatti, risente di una diffusa rigidità, vocale e interpretativa. Malgrado il timbro molto bello e di ottimo bronzo e squillo, la buona organizzazione vocale che gli consente di dominare con sicurezza le incursioni verso il registro acuto, Mattia Olivieri dà però l’impressione di essere un po’ troppo stentoreo nella linea di canto e poco mellifluo nel dare anima a questa potente quanto meschina personificazione del male, anticipatrice di quella del successivo Jago. Il baritono emiliano, dati i mezzi vocali e l’intelligenza musicale, possiede un sicuro margine di maturazione per tornare a vestire i panni e a gestire intrighi e veleno di Paolo Albiani.

Si distingue per il bel colore brunito del timbro Andrea Pellegrini nella piccola ma significativa parte di Pietro.

Marina Rebeka torna al San Carlo a quasi tre mesi dal suo inatteso debutto a Napoli (a luglio sostituì, all’ultimo momento, la collega Lisette Oropesa nella Traviata: qui la cronaca della serata) e vi fa ritorno per una parte che, per il fulgore giovanile del personaggio di Amelia, sembra lo specchio della sua vocalità e della sua meravigliosa, avvolgente e compatta pasta timbrica. Quella del soprano lettone è una prestazione in crescendo: sempre corretta, con acuti di rara luminosità, gestione eccellente del legato, dei fiati, delinea una Amelia traboccante di amore, per Gabriele Adorno e per il padre Simon Boccanegra. Marina Rebeka, evaporata la tensione iniziale percepita in “Come in quest’ora bruna”, diventa imperiosa, tanto nella bellezza del suo prezioso strumento quanto negli accenti; via via, pur nella compostezza vocale e interpretativa che la contraddistingue, si dimostra languida e appassionata.

A corredo di una linea di canto pulita e calibrata, di una vocalità molto ben organizzata (gli echi della lezione del belcanto, in particolare di quello rossiniano, risuonano nella sua vocalità aristocratica), che fa perno sullo smalto e sulla bellezza del timbro, Marina Rebeka denota, seppur con i limiti dell’esecuzione in forma di concerto, un evidente coinvolgimento scenico. Un’Amelia Grimaldi apprezzabile e convincente.

Per Francesco Meli quello di stasera al San Carlo è un “quasi-debutto”: nelle stagioni del Teatro infatti, il suo nome è apparso una sola volta, nel settembre del 2021, in un concerto in onore di Enrico Caruso nel centenario della morte ( leggi la recensione). Debutto operistico stasera pienamente convincente, e in una delle parti verdiane, Gabriele Adorno, che sembrano essere state scritte proprio per il tenore genovese.

A Francesco Meli, che sfoggia un’eccellente forma vocale, acuti squillanti, il solito bellissimo e suadente timbro vocale, basta la sortita fuori scena di “Cielo di stelle orbato” per dare una lezione di canto verdiano, quel canto che si origina, tra i tanti e vari requisiti, dal suono della parola, che scava e sviscera nell’espressività della scrittura vocale, che ricerca accenti, colori, sonorità sempre cangianti, che, quando necessario e se scritti, si limita a sussurrare se non addirittura a sibilare, un canto, quello che si usa chiamare “verdiano” che, in definitiva, “fa teatro”. E Francesco Meli sa come rendere umano, palpabile e sfaccettato il suo personaggio: il fraseggio è estremamente suggestivo, ricco di chiaroscuri, mezzevoci - qualcuna in meno in falsetto impreziosirebbe ancor più la linea di canto -, si percepisce impeto, veemenza, enfasi e attenzione alle pieghe del testo. In sostanza, un Gabriele Adorno che unisce l’aristocrazia dei natali all’impulso emotivo e vitale della gioventù. Un’interpretazione, quella di Meli, al giorno d’oggi di lusso e di riferimento.

Completano il cast il Capitano dei balestrieri di Vasco Maria Vagnoli e l’Ancella di Amelia di Silvia Cialli, entrambi artisti del Coro.

Se il cast vocale vince e convince, chi scrive registra entusiasmo e apprezzamento in misura minore, invece, per la direzione di Michele Spotti, il quale sin dal Prologo dà l’impressione di puntare ad assicurare una tendenziale precisione e articolazione musicale (non sempre del tutto ottenuta) tra palcoscenico e buca e ad apprestare un buon accompagnamento al canto. Della poetica musicale del mare, il protagonista nascosto e onnipresente di Simon Boccanegra quasi non c’è traccia; così come non è apparsa correttamente calibrata la giusta temperatura drammatica di alcuni momenti salienti dell’opera, duetto dell’agnizione tra Simone e Amelia, finale atto III.

Pare, questa, una lettura che punta alla correttezza, all’ordinato fluire della trama musicale, ma che, a differenza del cast vocale, non rende il giusto valore a tante gemme, momenti di pura tensione teatrale, bozzetti sonori, di cui Simon Boccanegra, partitura tra le più “sinfoniche” di Giuseppe Verdi, è disseminata.

L’Orchestra del San Carlo è formazione di suo sempre duttile e affidabile; stasera dà l’impressione di onorare il suo compito sulla base di ciò che le viene richiesto dal direttore. Sa e può, però, dare di più.

L’esecuzione in forma di concerto, per il Coro, ha un inconveniente: in molte occasioni (ad esempio, l’aria di Fiesco “Il lacerato spirito”, la sommossa nel corso della Scena del Consiglio, il lugubre finale dell’atto III) Verdi prescrive che sia fuori scena. Giocoforza, il Coro posto sul palcoscenico sfalsa i piani sonori concepiti, con il consueto acume teatrale, da Boito e Verdi. E così spiazza sentir risuonare, forte, “È morta!” mentre Fiesco piange la propria figlia: l’alterazione sonora finisce per attenuare l’angoscioso momento drammatico. Detto ciò, la prova del Coro, diretto con la consueta perizia e cura da Fabrizio Cassi, si districa con onore nelle complesse scene in cui è impegnato e si fa apprezzare, al netto dello sfasamento di cui si è detto, per il colore cinereo dell’ultima esclamazione “No - Boccanegra!!!” che chiude l’opera.

A far da sfondo a questa esecuzione in forma di concerto di Simon Boccanegra è stato invitato l’architetto giapponese Kengo Kuma che ha rivestito il fondale del palcoscenico di Alcantara, materiale ignifugo, dando corpo alla rappresentazione intitolata da Kuma stesso Shiwa Shiwa, una “piega-solco” che evoca l’andamento curvilineo della natura, allusivo alle onde del mare, elemento che domina l’opera. La creazione di Kengo Kuma è bianca, il colore della purezza, ma è impreziosita, per sottolineare i diversi momenti drammatici, dal gioco delle luci firmato da Filippo Cannata.

Shiwa Shiwa evoca anche le vele delle navi; e la memoria visiva di chi scrive, per motivi anagrafici non di prima mano, non può che correre al mitico Simon Boccanegra firmato da Giorgio Strehler per il Teatro alla Scala dei ruggenti e ricchi di fermento anni ’70, dell’era Paolo Grassi - Claudio Abbado.

Si ritorna all’incipit di queste osservazioni soltanto per registrare ribadire il trionfo della serata, l’ovazione per Ludovic Tézier, l’enorme apprezzamento per Michele Pertusi, per tutto il cast vocale e per i complessi musicali. W Verdi!, come ha inteso suggerire Ludovic Tèzier indicando verso l’alto mentre il pubblico del San Carlo gli tributava l’ovazione.

In chiusura, solo una nota a margine: nel leggere stamattina la rivista operawire.com si apprende che l’etichetta Prima Classic, fondata da Marina Rebeka, ricaverà da questa produzione di Simon Boccanegra una registrazione discografica.


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