Voci per Babilonia
di Gina Guandalini
Semiramide, l'ultima opera italiana di Rossini, compie duecento anni il 3 febbraio 2023: ripercorriamo la storia di un'opera entrata nel mito.
Leggi la prima parte: Duecento anni di Semiramide - I
Duecento anni di Semiramide - III
Della storica prima di Semiramide alla Fenice di Venezia il 3 febbraio un autorevole biografo di Rossini come il romagnolo Vittorio Emiliani scrive “una sorta di summa in qualche modo restauratrice del lavoro musicale e teatrale sedimentato negli ultimi dieci anni….una grandiosa e insieme raffinata sintesi dell’ultimo periodo del Rossini maturo”. L’adozione quasi continua del canto di coloratura, che nelle opere napoletane è programmaticamente tenuto sotto controllo e selezionato a seconda della situazione, appare come uno “sfogo” personale, una volontà di siglare una volta per tutte un’era del canto, una dichiarazione di indipendenza dalle filosofie germaniche. E secondo Philip Gossett, musicologo americano che a Rossini ha dedicato la vita, in Semiramide non vengono inventate nuove strutture; il compositore ha riempito quelle vecchie con musica più elaborata, creando una nuova visione strutturale. Il pubblico veneziano accolse le recite con favore crescente ad ogni sera. La casa editrice Artaria di Vienna chiese i diritti di stampa e li ottenne subito. L’autografo della partitura completa, interamente di pugno di Rossini, è conservato presso l’Archivio del Teatro La Fenice.
Stendhal descrisse le condizioni vocali della protagonista come disastrosamente senescenti. Nell’insieme segnalava e crudelmente amplificava quel capolinea vocale della Colbran che Rossini aveva compreso perfettamente. Continuò invece per il basso-baritono romano Filippo Galli (1783- 1863), per il quale Rossini aveva scritto sette ruoli a cominciare da Tarabotto nell’Inganno Felice fino questo monumentale Assur, una carriera storica. Dopo Venezia l’opera fu subito portata a Vienna e Napoli, dove regnava l’organizzazione di Antonio Barbaja. Al passo indietro di Isabella corrispose il balzo in avanti di due scalpitanti primedonne pronte a vestire i panni di Semiramide, la francese Joséphine Fodor-Mainvielle e la piemontese Teresa Belloc Giorgi. Entrambe lasciarono le scene non molto tempo dopo questa presa di possesso del ruolo babilonese, proprio come la Colbran (la Belloc riuscì però a cantarlo alla Scala un anno dopo la prima di Venezia). Il critico e storico del canto Francesco Florimo, amico di Bellini, nel 1840 diede alle stampe il manuale Breve metodo di canto, dedicato a un illustre consigliere vocale della Colbran, il castrato Girolamo Crescentini. In esso Florimo consiglia ai cantanti di guardarsi dalle imitazioni pedisseque non adatte ai loro mezzi vocali: ”Sarebbe strano che tutti i soprani volessero cantare la cavatina della Semiramide come si cantava dalla Fodor. Se si hanno quei mezzi, si canti pure; in caso contrario, l’avveduto maestro accomoderà il pezzo ai mezzi del suo allievo”. Le recite risalenti al ’23 e ‘24 della Fodor-Mainvielle – ma forse anche svariati concerti - erano quindi rimaste nel ricordo di un musicologo; e questo nonostante un memorialista illustre come Lord Mount-Edgcumbe affermasse che la Fodor, da lui ascoltata a Londra, cantava stringendo i denti, rovinando così l’effetto del suo timbro.
Nel 1824 Giuditta Pasta trionfava a Londra in Otello e, con Rossini sul podio, Semiramide. Avrebbe tenuto l’imperiosa regina in repertorio fino al 1841, rifiutando sempre Arsace: al compositore scrisse infatti di non perdere tempo a trasportare per lei la parte del contralto. Il 25 aprile 1826 andò in scena al Park Theatre di New York La figlia dell’aria, musica di Manuel Garcia e libretto di Gaetano Rossi, nell’ambito di una stagione incentrata sulla famiglia Garcìa. È considerata la prima storica occasione per gli statunitensi di assistere a delle opere: la futura Malibran, ancora “signorina Garcìa”, diciassettenne, si presentò come Rosina, Tancredi, Zerlina in Don Giovanni (con il vecchio Lorenzo Da Ponte nel pubblico) e proprio nell’opera di suo padre, La figlia dell’aria. In questa il cast presentava la sua Semiramis, il personaggio di Memnon interpretato da Manuel padre e come Neride Joaquina Sitches Briones, moglie di Garcia e madre della Malibran. Io ipotizzo che nella partitura fossero inclusi, a guisa di pastiche, brani dell’opera rossiniana.
Nel giro di poche stagioni debuttarono nel ruolo titolo una pleiade di soprani storici: Henriette Sontage e Maria Garcia Malibran a Parigi, poi Henriette Méric-Lalande, Santina Ferlotti, Luigia Boccabadati. Notevole la disponibilità dell’affascinante Malibran a passare dal ruolo del titolo (“Sta molto bene in scena e rappresenta con dignità la Regina babilonese”, scrive un recensore) accanto alla Pisaroni e poi nella stagione seguente al ruolo di Arsace, fronteggiando le regine della Sontag e della Méric Lalande. Una versatilità di cui non c’è altro esempio a quel livello. Intorno al 1829 comparve Gems à la Malibran, ossia Gioielli nel suo stile, del virtuoso di pianoforte Ignaz Moscheles. Sono variazioni pianistiche che si attengono strettamente a quanto si poteva ascoltare dalla grande artista: Gems contiene quattro brani, “Dolce pensiero” e i duetti con Arsace, per cui ci viene dato un documento delle variazioni di Maria Felicia. Che nel ’33 a Napoli fu protagonista di un’altra grande tappa: la regina di Babilonia insieme – o contro – Luigi Lablache, grande basso-baritono e attore di madre irlandese e padre francese.
Dal 1834 Giulia Grisi (milanese, 1811- 1869) fu la più pregevole interprete della regina babilonese per un quarto di secolo. Alcuni ritratti ne immortalano la regalità e la bellezza, di cui scrisse nel suo diario la giovane Queen Victoria - che preferiva la sua voce a quella della Malibran. Ancora nel 1850 la grande Giulia faceva sentenziare al giornale inglese The Musical World: “Il mistero inesplicabile in cui è attorcigliata la trama di Semiramide, e la sua infinita lunghezza si perdono di vista quando Madame Grisi è sulla scena”.
In un’intervista del ’57 la Callas dichiarò: “Non canterò Semiramide, il protagonista è il mezzosoprano!”. Interessante questa sua percezione dell’opera come dominata da Arsace. La prima interprete del giovane guerriero fu la cremonese Rosa Mariani, che tenne poi il ruolo in repertorio per diverse stagioni. Subito dopo di lei trionfò Rosmunda Pisaroni, contralto possente, allieva di tre illustri castrati, Pacchierotti, Velluti e Marchesi. Nei ricordi londinesi di Lord Mount-Edgecumbe, melomane e diarista, si legge una cattiveria su queste due primedonne, ossia che rivaleggiavano in bruttezza ed era difficile decidere a chi dare la preferenza. Ma il maligno cronista sentenziava anche, nella pagina seguente, che la Mariani “aveva certo una buona voce ed era considerata una buona cantante”.
Già dal ’24 Stendhal diveniva cronista musicale del Journal de Paris e Rossini assumeva la direzione del Théâtre-Italien a Parigi; per Arsace fu ingaggiata la giovane Adelaide Schiassetti – spesso Schiasetti con una S sola -, grazioso contralto milanese che da qualche anno trionfava a Monaco di Baviera. Quanto all’Arsace parigino della Malibran, sul Censore Universale dei Teatri dell’aprile ’29 si legge un j’accuse risentito contro di lei e la sua esecuzione del giovane guerriero: “Ciò che non si può perdonarle… è quella falsa mania di sostituire i propri ai pensieri del compositore, e di caricarne le frasi con un’infinità di ghiribizzi. La sua cavatina era appena riconoscibile, così anche il suo duetto con Assur. Il pezzo meglio eseguito fu il duetto dell’atto primo con Semiramide; qui solamente fu rispettato il pensiero, e reso, se non con un profondo sentimento drammatico, almeno con grazia e leggerezza, e con parità grande d’esecuzione. Non così quello del second’atto, con cui si terminò l’opera: una procella di vocalizzi e gorgheggi fino a rendere assolutamente nullo l’effetto di questa scena terribile. Sembrava invece di veder due amanti nel giubilo di trovarsi uniti”. Pochi mesi dopo Il Censore universale dei teatri attacca la Mariani con gli stessi concetti: “Si permette già da qualche tempo nella sua parte d’Arsace tanti e sì scandalosi arbitrii in discapito della musica, ch’essa perde assolutamente tutta quella magica soavità onde seppe adornarla l’insigne compositore. Una sì colpevol licenza deturpa le più belle ispirazioni musicali, e defrauda l’uditorio della compiacenza di ascoltarle e gustarle”. Tutto questo rientra nell’endemico problema della ricezione del canto di coloratura all’estero ma anche in patria.
Nel 1825 debuttò alla grande in Arsace, tra la Fodor e Lablache, Giuditta Grisi, sorella di Giulia. Gli Arsace di Marietta Brambilla e di Amalia Schütz-Oldosi contribuirono al “giro” internazionale dell’opera negli anni Venti.
Quanto ai primi interpreti di Assur, si è detto di Galli e di Lablache. La struttura della pazzia di Assur fungerà da lezione per innumerevoli e celeberrime scene analoghe composte nei decenni successivi. I teatri vedono poi in Assur i successi di Orazio Cartagenova, Domenico Cosselli, Antonio Tamburini, Carlo Zucchelli, Cesare Badiali. Segnalo che nel ’25 a Trieste e nel ‘30 a Padova, Udine e Venezia degli impresari in difficoltà affidarono la parte del tiranno babilonese a dei tenori: rispettivamente a Nicola Tacchinardi, Domenico Reina, Claudio Bonoldi e Gaetano Crivelli: eccellenti artisti spaesati da emergenze dell’ultima ora, costretti a tagliare e a inserire arie di altre opere, ma la pratica era assolutamente normale e comune. Tra gli Assur storici c’è il faentino Antonio Tamburini, tra i maggiori bassi-baritoni della prima metà dell’800; avrebbe cantato poco prima di morire, a 72 anni, il “Pro Peccatis” dallo Stabat Mater di Rossini, alla cui prima esecuzione aveva partecipato nel 1842.
Quanto al difficilissimo ruolo di Idreno (inesistente in Voltaire, che mirava al sublime e al terribile e non alle querimonie d’amore) ritengo che Rossi e Rossini lo inventassero come elegante riempitivo fornito di “numeri” sacrificabili secondo le circostanze dell’allestimento. Qualcosa va detto di quel primo interprete John Sinclair: nato nel 1791 a Edimburgo, studiò musica nella banda di un reggimento e si esibì al Haymarket Theatre in composizioni di autori inglesi come Shield, Bishop e Davy. Nel 1819 si recò al Conservatorio di Milano per studiare con Paolo Banderali (che passerà al Conservatorio di Parigi per interessamento di Rossini), esattamente come avevano fatto la Pasta e la Méric Lalande pochi anni prima. Nel ’21 passò a Napoli, dove si fece ascoltare e consigliare da Rossini e studiò con l’operista Luigi Mosca. In seguito si esibì con successo in teatri italiani in diversi ruoli rossiniani. Ma sentite che cosa afferma Rockwell Blake, interprete di Idreno di portata storica: “Rossini tagliò l’aria del tenore del primo atto quando fece conoscenza con Sinclair; in quel 1823 prese il suo compito di editor e di protettore del pubblico veneziano così sul serio che tagliò praticamente a metà la seconda aria di Sinclair, revisionò e ridusse il numero e la difficoltà delle note che i veneziani sarebbero stati costretti ad ascoltare da questo tenore inglese. A lavoro finito ciò che rimase de 'La speranza più soave' era appena più difficile di 'Dalla sua pace' di Mozart.” Secondo Blake, insomma, Sinclair sarebbe stato per il compositore una scoperta, e non del tutto positiva. Dopo la creazione di Idreno tornò a Londra, facendosi applaudire soprattutto all’Adelphi e al Drury Lane di Londra. Là rese popolari le canzoni scozzesi, alcune di sua composizione e tuttora conosciute. Tenore puro, con elegante falsetto che arrivava al FA acuto, a Londra fu accusato di avere uno stile un po’ effeminato e di “cantare per le signore”. Lasciò il teatro a metà degli anni ’30 e morì nel 1857.
In quello stesso 1823 Idreno fu cantato a Napoli da Giuseppe Ciccimarra (Goffredo e Carlo della prima Armida) e a Vienna da un tenore storico come Giovanni David. Quando Semiramide fu diretta a Londra da Rossini con la Pasta, non solo c’era la bellissima Madame Vestris (Lucia Bartolozzi) come Arsace, ma anche Manuel Garcia nella parte di Idreno.
Azema, “principessa del sangue di Belo”, reca il libretto originale; e io voglio qui ricordare che in occasione della Semiramide allestita a Pesaro nel 1994, nel suo camerino Rockwell Blake mi mise a parte di alcune sue considerazioni: “Chi è Azema? Che cosa rappresenta? Come mai è così importante che i due uomini vogliono sposarla a tutti i costi? Secondo me è depositaria dell’asse dinastico, è lei che può conferire il titolo regale”. Non è da escludere che anche Voltaire la pensasse così.
Semiramide entrò presto nella critica e nella letteratura. Vie de Rossini di Stendhal uscì nel 1824 ma l’autore lo concluse nell’anno precedente. Pietro Brighenti, letterato ed editore modenese, amico di Leopardi e poi spia degli austriaci, pubblicò nel 1830 Della musica rossiniana e del suo autore. Qui azzardò un parallelo tra Semiramide nella musica e la Divina Commedia in letteratura: “opera tutta evidente, tutta grande, tutta classica, dalla vaghissima sinfonia che la precede sino all’ultima nota del sorprendente terzetto che la chiude”. Nel 1831 Honoré de Balzac pubblica La peau de chagrin, storia di un talismano che ispira il suo giovane proprietario Raphaël a buttarsi su tutti i piaceri. Tra di essi c’è una recita di Semiramide alla Salle Favart di Parigi, ma lui entra a teatro solo dopo il primo atto ed è evidentemente molto più interessato alle spettatrici che allo spettacolo. Tra il 1837 e il 1839 fu pubblicato dallo stesso scrittore Massimilla Doni, sottile studio sull’amore platonico ed erotico, in cui l’autore, dietro suggerimento di Georges Sand, disserta sulla sua opera prediletta, Mosé in Egitto di Rossini, ma nei capitoli che si svolgono a Venezia cita più volte la nostra opera.
Tra il 1830 e il 1840 le opere serie rossiniane cominciarono a essere sentite come fuori moda. Poche stagioni prima Semiramide sarebbe semplicemente sparita dai cartelloni; continuò invece a circolare; senza la vitalità indistruttibile del Barbiere di Siviglia, ma come monumento teatrale e come festival del godimento del canto. Un giornale parigino che recensiva l’apertura stagionale del Théâtre-Italien nel 1841 scrisse che nel corso di quest’opera “tutto contribuisce al tedio, ove orecchie e cuore non siano fortemente impressionate da una bella esecuzione delle arie e dei magnifici pezzi d’insieme”. Due anni dopo il londinese The Musical World testimoniava un’estraneità ancora maggiore alle vicende musicali babilonesi. La presenza di artisti di alto livello era l’unico modo di rendere giustizia a Rossini: “nello stupido duetto ‘Giorno d’orrore’, ridicolmente incompatibile con le parole, l’abilità di due vocaliste come le signore Grisi e Brambilla ha ottenuto ogni suffragio e il trionfo tra il pubblico, a dispetto dell’intensa assurdità della composizione… dobbiamo confessare che troviamo pochissimo merito nella musica, nonostante l’eccitazione e il fracasso cui danno voce i suoi ammiratori”.
Ancora più interessante è la diagnosi stilata nel febbraio ’47 sulla Gazzetta privilegiata di Venezia: “da gran tempo, sono bandite quelle belle voci, sonore, semi-virili, od a queste omogenee, che si chiamano voci di contralto. Sembra infatti che il moderno andazzo le abbia dannate all’ostracismo, e preferisca invece di sentire quelle vocine sottili sottili, penetranti,acute, somiglianti a quelle che sortono dalla gola degli usignuoli… I maestri di quest’arte compongono quindi, da anni ed anni, per donne cantanti che hanno l’ugola stretta, e che gorgheggiano sul fare degli uccellini”.
Il timbro contraltile stava passando di moda; ma, come spesso accade nel mondo dell’opera, due mesi dopo questa costatazione debuttò a Londra nel ruolo di Arsace Marietta Alboni. Era un giovane contralto umbro cui Rossini, impressionato dalla sua voce, faceva da padre fin dal 1839. A diciassette anni debuttò alla Scala nella Favorita per poi proseguire in una carriera nazionale e internazionale con poche eguali nella storia. Alla Semiramide londinese ne seguì un’altra parigina, sempre con Giulia Grisi e con successo trionfale. Eccellente interprete della Figlia del Reggimento come del ruolo baritonale di Don Carlo nel verdiano Ernani, la Alboni presentava un Arsace non propriamente androgino da vedere, ma vocalmente soggiogante. È vero che il pubblico manifestava gusti in evoluzione, costituendosi in un massiccio partito di “verdisti” o “verdeggianti” in opposizione ai “classicisti”. Ma la costante presenza di voci potenti e tecnicamente ferrate contribuiva a tenere n vita la reggia di Babilonia.
Nel 1856 l’opera è protagonista di un racconto del letterato francese Joseph Méry (autore con Camille du Locle del libretto del Don Carlos francese). La Semiramide è contenuto nel suo libro Contes et novelles. La storia è narrata nel 1838 da un celebre cantante, Monsieur L., forse Lablache. Due o tre anni prima, a Napoli, il giovane novizio irlandese Patrick assiste al finale I di Semiramide al San Carlo - “torrenti di note melodiose come perle prodigate senza limiti”- e rimane folgorato dalla musica, dal coro e dalla “cantatrice superba e raggiante che impersona la regina”. Sente che deve salvarsi dalla perdizione. Costretto a rimanere a Napoli in attesa di una nave per Dublino, è ospitato da un giovane aristocratico italiano, che adora Semiramide (“Se in paradiso non si dà la Semiramide dico di no a San Pietro”). L’invito a cenare con Rossini quella sera getta nell’angoscia Patrick: “L’autore di tale opera non può essere che un demonio!”. Infine il novizio accetta ma il lussuoso convito non lo rasserena: il coro del San Carlo intona la scena iniziale dell’opera (indicata come “Tra tanti regi e popoli”) per accogliere Rossini e la primadonna. Durante il pranzo il grande Maestro dice a Patrick di avere notato l’emozione del giovane al San Carlo e di avere composto l’opera per lui. Il protagonista beve e si esalta tra Rossini e la primadonna, di nome Maria, e tributa un peana a chi ha composto quella musica sublime su una storia di personaggi corrotti ed effeminati. I convitati sono sbalorditi, il giovane irlandese sviene. Il giorno dopo una lettera della cantatrice lo invita a pranzo a Villa Barbaja. Il grande impresario dice a Patrick di avere riconosciuto in lui il grande cantante Patrick O’… e gli offre un cachet favoloso se salverà il San Carlo in grave crisi. Patrick viene richiamato all’ordine da un alto prelato e si chiude nell’eremo dei Camaldoli. Quindici mesi dopo lo ritroviamo prete a Killarney in Irlanda; ma anche lì lo raggiunge il demonio, sotto forma di Maria e dell’amico aristocratico, e di un coro e di un corno che intonano “Qual mesto gemito”. È una visione mandata dall’inferno, non c’è dubbio. La sua decisione è presa: andrà a predicare il Vangelo ai popoli dell’Eufrate. L’amico italiano, abbandonato da Maria, lo segue. Una curiosa, scombinata fantasia sul potere sensuale dell’opera italiana.
La versione francese di Semiramide fu invece un lavoro molto serio di Mèry e fu approntata con la collaborazione di Michele Carafa, al quale Rossini aveva interamente affidato l’adattamento musicale. Anche se già l’opera veniva cantata in francese - ad esempio a Lione - questa versione ufficiale, uscita nel 1860 e definita in copertina “Paroles de M.Mèry / Musique de Rossini” diede alla nostra opera uno status assicurato.
Come fecero anche le sorelle torinesi Barbara (1833-1919) e Carlotta (1835-1872) Marchisio, rispettivamente contralto e soprano: al loro debutto nel 1858 nei panni della regina di Babilonia e di suo figlio sorpresero i recensori per la capacità di riempire il teatro con pubblico giovane e anziano, sorvolando le diatribe Rossini-Verdi e classici-moderni.
Come sempre accadrà periodicamente nella storia di quest’opera, quando arrivava chi sapeva veramente cantare il pubblico accorreva e tributava ovazioni. Un anno dopo le due sorelle presentarono la loro Semiramide a Parigi, conquistandosi la gratitudine di Rossini. Un quaderno delle variazioni delle Marchisio è consultabile alla Pierpont Morgan
Library di New York.
Sull’esempio del grand-opéra parigino andavano enucleandosi due filoni di soprani: quelli tutti gorgheggi, ancora in grado di comprendere e rendere il canto di coloratura, e i soprani spinti ormai ad esso estranei. Nel 1863 Rossini scrisse trasposizioni e varianti alla parte di Semiramide per la giovane Adelina Patti (1843-1919), alla quale lui stesso avrebbe consigliato di affrontare il ruolo. Al debutto di Adelina nel ruolo di Semiramide (Amburgo 1868) il pubblicò fu sorpreso da queste cadenze mirabolanti; a fare accorrere gli spettatori erano la straordinaria vocalità e la perfetta scuola del soprano, che da ogni testimone – da Rossini e Verdi fino a George Bernard Shaw – fu giudicata affascinante, insuperabile, un unicum nel panorama canoro di quasi mezzo secolo. Le “variazioni Patti” sono probabilmente ascoltabili nella registrazione di “Bel raggio lusinghier” che il soprano polacco Marcella Sembrich (1858-1935) registrò nel 1908. L’ascolto non è facile all’inizio, ma basta poco per capire che questa voce, piena e ricca nei centri, è un messaggio che ci proviene dall’Ottocento, con gli attacchi vigorosi della scuola antica e con un gusto dell’ornamentazione che caratterizzava tutta un’epoca.
Cambiata la mentalità, cambiato il gusto: Semiramide è ormai la sua protagonista, si era ridotta alla cavatina della regina. la carica tragica dei finali e degli scontri tra i personaggi era svaporata. La Patti portò l’opera a Londra, a Boston, a New York, e “Bel raggio lusinghier” in molti concerti. È appunto “Bel raggio” che Oscar Wilde ammirò a Cincinnati il 20 febbraio 1882, per cui cita un’esibizione della Patti a Londra in The Portrait of Dorian Gray, con il commento “La Patti ha cantato divinamente”.
La sopravvivenza di quest’opera d’arte nella seconda metà dell’Ottocento viene attribuita alle performance delle Marchisio, della Patti e delle sorelle Ravogli. Ma Giulia (1858-1950, contralto) e Sofia Ravogli (1855- 1910, soprano), romane, si esibirono insieme in Semiramide solo in Italia e solo tra il 1879 e il 1881. Il Ruy Blas di Filippo Marchetti in patria e l’Orfeo ed Euridice di Gluck a Londra e a New York ebbero altrettanta importanza nella loro carriera; come pure Carmen, che rese G.B. Shaw “infatuated” della sigaraia di Giulia. Molto interessante è il fatto che avrebbero ricevuto consigli dal grande tenore Mario De Candia, compagno in vita e in arte di una delle Semiramidi massime, Giulia Grisi.
L’interesse di Nellie Melba, l’australiana Helen Porter Mitchell (1861- 1931), per la regina rossiniana la portò a cantarla a New York, Chicago e Philadelphia tra il 1894 e il ’95. Non è casuale che nella seconda metà della sua carriera la Patti indicasse nella Melba e nella Sembrich “forse le uniche in grado di perpetrare la gloriosa tradizione di una scuola moribonda”. A tenere gloriosamente in vita il repertorio rossiniano nell’ultimo ventennio dell’Ottocento contribuì anche la prodigiosa scuola di canto di Mathilde Marchesi a Parigi: fu la più importante e produttiva nel trasmettere gli insegnamenti di Manuel Garcia Jr. e la vera base del belcanto. Citerò soltanto le allieve della Marchesi che dopo gli studi con lei abbracciarono il repertorio di coloratura, dalla Regina della Notte ad Amina e Lucia, e tra di loro solo le più celebri: oltre alla Melba, vi furono Sigrid Arnoldson, Ilma de Murska, Etelka Gerster (rivale della Patti), Selma Kurz, Estelle Liebling (maestra della Sills), Aglaia Orgenij (maestra della madre di Joan Sutherland), Regina Pacini.