L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Carnefici e burattini: storia della storia di Turandot

di Gina Guandalini

Un viaggio fra le origini del soggetto dell'ultimo, incompiuto capolavoro pucciniano.

Le fiabe antenate di Turandot o che contengono qualche suo elemento - la fanciulla che odia gli uomini e il matrimonio, la principessa che sottopone i pretendenti a prove di abilità intellettuale, la saccente figlia di re che risponde a tutti gli indovinelli di chi la vorrebbe in sposa (vince il contadino che ne crea uno insolubile sulla base di fatti noti a lui solo), la decapitazione di chi non risolve l’enigma. Tutti motivi che presi singolarmente renderebbero infinite le fiabe antenate di Turandot. La famosa classificazione analitica delle fiabe, progettata da Antti Arne agli inizi del Novecento e codificata da Stith Thompson negli anni Trenta, delimita un filone chiamato “La principessa che non sa risolvere gli indovinelli”, all’interno della quale è delineato il tipo “Turandot”, nel quale è la principessa che propone - e impone - i propri enigmi..

Turandot è una favola che ha origini antiche e difficili da definire con certezza nello spazio e nel tempo Il tema riguardante gli enigmi rimanda a lontani riti iniziatici nei quali rientra il noto episodio della Sfinge che impone a Edipo una prova da superare prima di giungere in città, liberarla dalla peste e sposare la regina Giocasta. Il nome da indovinare si collega alla sacralità del nome nascosto, è un mantra, conferisce carattere di divinità o di eroe e non è il nome reale assunto comunemente dal dio o dall’eroe. Conoscere in ambito misterico il nome segreto di una divinità superna o infernale equivale ad avere in proprio potere l’anima, l’essenza, dell’eroe o del dio stesso. Alla fine della rappresentazione teatrale Turandot non dichiara pubblicamente il nome di Calaf, ma quello di Amore, di cui sa ormai di essere in potere.

Il primo “elemento Turandot” importante lo ritroviamo in un romanzo latino, che è quasi certamente il rifacimento di un originale greco: Storia di Apollonio di Tiro, che è stato datato ai primi del III secolo dopo Cristo. Ebbe innumerevoli versioni in molte lingue medievali; le prime traduzioni in volgare italiano sono del XIII secolo. Il primo capitolo racconta del re di Antiochia Antìoco, rimasto vedovo con una figlia bellissima. Molti signori e baroni la domandano in moglie. Di questa fanciulla Estasia l’incestuoso re si innamora e la fa sua. Continuando il vergognoso rapporto, “non aveva talento di maritarla, ma per mostrare di volerla maritare fece gridare per tutte le sue terre, che chi la volesse venisse a sua corte; e quale gli saprà esporre una quistione che egli gli farà, l’averà per moglie; e se non la saprà esporre gli farà tagliare la testa di presente e porre in su i merli della cittade”. Dalla città di Tiro giunge il principe Apollonio, “molto giovane e savissimo”. Ecco l’enigma che gli propone Antìoco: “vivo nella scelleratezza; uso la carne di mia madre. Cerco mio fratello, marito di mia madre, e non lo trovo”. La risposta di Apollonio è “Quando hai detto ‘vivo nella scelleratezza’ non hai mentito: guarda te stesso; e quando hai detto ‘uso la carne di mia madre’ neanche questa è menzogna: osserva tua figlia”. Antìoco sentenzia che il giovane principe non ha risposto giusto, ma è così giovane e nobile che gli concede trenta giorni per ripresentarsi e riprovare. Apollonio torna a Tiro e subito fugge per nave, temendo la vendetta di Antìoco. Questi manda a Tiro per ucciderlo un suo fido , che trova tutta la città addolorata per la fuga de suo principe. Quando Antìoco ne viene informato, mette una taglia di cinquanta talenti d’oro sulla testa di Apollonio, cosa che lo costringe a compiere viaggi avventurosi. Il tema del padre-padrone incestuoso, che ritorna in Pelle d’asino, è probabilmente alla base del rifiuto delle nozze, solo apparentemente dovuto alla volontà della figlia.

In epoca ancora premaomettana diventano popolari le leggende arabe del principe beduino Hatem, che si offre a nome di un amico, innamorato della bellissima Hasn Banu, di rispondere alle sette domande che lei pone come condizione alle nozze. Hatem compie un’impresa alla Indiana Jones affrontando deserti, trabocchetti, incantesimi e risolvendo gli enigmi. Al British Museum si trova un prezioso manoscritto persiano che risale agli anni 591-607 d C; contiene poesie e racconti ed è ornato di miniature bellissime. Purtroppo questo prezioso testo è mancante proprio del racconto che nell’indice è intitolato Il principe Calaf e la figlia dell’Imperatore della Cina. Abbiamo quindi solo il titolo e in esso ul primo esempio del nome del protagonista maschile..

Due figure femminili realmente esistite, entrambi chiamate Būrān-dukht, figurano nella storia dell’Islamismo. La prima, colta e battagliera, regnò per meno di due anni, dal 630 al 631 d C. La seconda, è ricordata anche per il lusso e la solennità delle sue nozze – che riuscì a posporre dai dieci anni al proprio diciottesimo compleanno - con il Califfo di Baghdad..

La prima riconoscibile Turandot è in un raffinato poema scritto tra il 1197 e il 1201 dal poeta e filosofo persiano Nazemi di Ganja nell’Azerbaijan (1141-1209). Il titolo è Haft Peikar (“Sette immagini”, anche tradotto “Le sette principesse” e “Le sette bellezze”). Il re Vahram Gur del IV secolo d.C. ha sette mogli, ognuna alloggiata in un sontuoso padiglione di diverso colore: le visita a turno, cominciando dal padiglione nero per finire in quello bianco, con evidente simbolismo alchemico. La traduzione in italiano è del grande orientalista e arabista Francesco Gabrieli (1904-1996). Nel padiglione rosso la principessa Nasrin racconta al consorte la storia della bellissima e coltissima figlia del re di Russia, che rifiuta di sposarsi e si ritira in una fortezza di montagna; sulla strada dell’ingresso sono posizionate spade che scattano automaticamente e decapitano – anche qui in stile Indiana Jones – i pretendenti che osano avvicinarsi. Chi ha l’abilità di riuscire a entrare nella fortezza deve risolvere quattro indovinelli. Innumerevoli teste tagliate sono infisse sugli spalti, mentre all’ingresso troneggia un ritratto della affascinante e crudele principessa. Un principe che giunge per caso e vede il bellissimo viso, decide di sfidare anche lui la sorte. La sfida enigmistica si svolge nel palazzo dell’imperatore e consiste in scambi di perle, latte, anelli e grani di vetro, che contengono significati mistici, erotici e alchemici. Il principe rivela una cultura pari a quella della principessa. Tutto il poema di Nazemi può essere letto in chiave alchimistica; e simbolo alchemico è anche la decapitazione, in quanto simboleggia la separazione dell’intelletto dall’aspetto istintivo della psiche. Nonostante le molte somiglianze con la favola di Turandot che conosciamo noi, oggi i filologi tendono a separare questa storia, inserita in una raccolta, dalla Turandot “classica”.

Una versione un po’ più tarda della storia è raccontata dallo studioso e narratore Mohammad Awfi (ca. 1170-1232). Al 1230 circa risale la sua Storia della figlia dell’imperatore di Costantinopoli, all’interno di una vastissima raccolta il cui titolo è stato tradotto Compendio di storie e bagliori di narrazioni. Il plot è più breve, ma anche qui ci sono le teste tagliate infilzate all’ingresso del palazzo “che lo difendono più saldamente delle stesse mura”, l’innamoramento che avviene per mezzo di un ritratto della crudele principessa e la compassione del padre della decapitatrice nei confronti dei pretendenti. Awfi si concentra sugli enigmi da lei posti, che qui sono dieci e trattano di cosmogonia, religione ed etica, le materie che costituivano la base della cultura dei giovani persiani di famiglia nobile. Il pretendente che li risolve propone lo scambio che troveremo in Puccini: le concede un giorno per rispondere alla propria domanda. Su questo racconto di Awfi si basa una versione più lunga, che sposta l’azione alla Cina. Un principe persiano che visita il paese sente parlare della bellezza di questa temuta principessa, e viene martellato da quattro giorni di quesiti difficilissimi. Li risolve tutti; e anche qui alla fine è lui a imporre a lei un enigma. Per risolverlo si presentano negli appartamenti del principe delle bellissime fanciulle, precettate dalla Crudele con l’ordine di sedurlo e carpirgli la risposta; una di loro la ottiene e fugge prima che la seduzione sia consumata, lasciando i propri abiti nell’appartamento del principe. Il mattino dopo, rassegnato alla morte, egli, a conferma del linguaggio metaforico che i due protagonisti impiegano in tutti i loro rapporti, lamenta che a caccia ha catturato un uccello ma non ha potuto consumarlo e gli sono rimaste solo le piume. Convinta di avere a che fare con un pretendente intelligente e colto, la bellissima si arrende. Questa versione di Awfi è considerata la prima vera Turandot, nonostante il nome della protagonista non sia quello, la più antica tra le stesure scritte della storia che ci interessa.

In tutta l’Asia troviamo altre prefigurazioni di Turandot, ossia di figlie di condottieri o re che pretendono dai futuri sposi complesse prove fisiche o intellettuali. Sia Marco Polo nel Milione, sia lo storico arabo Hamadani citano la principessa Khutullin, anche chiamata Aigiaruc, figlia del re dei Mongoli nomadi e parente di Kublai Khan, che accetta di sposare solo colui che la vince nella lotta e nelle corse a cavallo, e resta perciò zitella. Si è insinuato che, come già Estasia di Antiochia, abbia un rapporto incestuoso con il padre.

È accertato che la tradizione orale dei racconti orientali, passando dalla Spagna e dalla Sicilia, è arrivata in Toscana e a Venezia. Boccaccio (1313–1375), Franco Sacchetti (1332 – 1400) e Giovanni Sercambi (1348 –1424) presentano strutture e motivi mutuati dall’Oriente, tanto che Francesco De Sanctis nel 1870 dichiarò che le favole orientali nel Medio Evo avevano influenza “almeno quanto i romanzi cavallereschi”. Un allegro verseggiatore del Medioevo tedesco, Heinz der Kellner (“il cantiniere”), riferisce di un duello verbale tra una figlia di principe e un rozzo contadino, di nome Konni; vince lui, e la costringe a sposarlo, inventando un indovinello con elementi scatologici su fatterelli che lui solo sa. La storia evidenzia la distanza sociale e linguistica tra feudatari e braccianti. È stato segnalato un “elemento Turandot” nei tre scrigni che Porzia sottopone ai tre pretendenti in Il mercante di Venezia di Shakespeare (1598); in uno studio sulla fiaba di Gozzi pubblicato nel 1906 lo afferma anche la scrittrice Matilde Serao.

Nel patrimonio fiabistico italiano la “situazione Turandot” non esiste. Italo Calvino, nelle sue Fiabe italiane, afferma che il motivo dell’indovinello proviene dai romanzi ellenistici – vedi appunto Apollonio di Tiro. Il figlio del mercante di Milano, fiaba raccolta da Calvino in provincia di Pistoia, è molto simile nella trama al poemetto medievale di Kellner e a Das Rätsel dei fratelli Grimm. Narra di un ragazzo ingegnoso, che propone un enigma insolubile alla figlia del Re del Portogallo, un indovinello messo insieme su una serie di avventure precedenti all’arrivo a corte, che la principessa non può conoscere (il figlio del mercante è così giovane che lei gli contropropone, al posto delle nozze, la rivelazione di un segreto magico), Ma nella favolistica italiana scritta è un caso unico.

Un impatto clamoroso sulla cultura occidentale hanno i dodici volumi di racconti arabi, egiziani, persiani che l’orientalista francese Antoine Galland (1646 –1715) trascrive e poi pubblica tra il 1704 e il 1717, intitolandoli Les milles et une nuits. Il corpus fiabesco delle Mille e una notte crea l’orientalismo, l’esotismo, l’esoterismo, influenzando, la letteratura, le arti figurative, l’arredamento, l’atteggiamento verso il mondo islamico di tutto l’Occidente. José Luis Borges ha dichiarato che il Romanticismo è cominciato a partire dalla diffusione delle Mille e una notte in Europa. Comincia così, in Francia e poi all’estero una corsa alla ricerca, alla traduzione e all’invenzione di favole orientali. È importante notare che l’Orlando furioso di Ariosto (edizioni 1516 e 1521) contiene nel canto XXVIII la storia boccaccesca di Iocondo e del suo re Astolfo, che è la cornice e la ragion d’essere delle Mille e una notte, arrivate in Europa duecento anni dopo. È la riprova della impossibilità di collocare con esattezza nel tempo e nello spazio tutto questo materiale orale diffuso in Asia e in Europa.

François Pétis de la Croix, nato a Parigi nel 1653, era un orientalista figlio di orientalista; visse ad Aleppo, Isphahan e Costantinopoli, studiando e padroneggiando il turco, l’arabo e il persiano. Docente di arabo al College Royale di Parigi, affermò di avere ricevuto ad Isphahan nel 1675, da un derviscio di nome Moklis (“il giusto e mite”), un manoscritto tradotto in persiano che conteneva antiche fiabe indiane dialogate. Pétis tradusse queste fiabe e fece rivedere il lavoro al noto romanziere e commediografo francese Alain-René Lesage, autore di romanzi e testi teatrali fortunatissimi, come Les Diable Boiteux, Turcaret, Gil Blas. Nella revisione di Lesage la raccolta di Pétis uscì tra il 1710 e il 1712, con il titolo Les Milles et un Jour, appunto per sfruttare il successo travolgente delle Nuits. Per un secolo questa raccolta godette dello stesso successo delle Mille e una notte, poi finì nel dimenticatoio. La cornice dei Giorni è speculare a quella delle Notti: là un feroce odiatore di donne è convertito in fine all’amore dalle virtù e dal talento di narratrice di Sheherazad; nei Mille e un giorno una bellissima principessa del Cashmir, Farrukhnaz, odia gli uomini in seguito a un sogno simbolico e rifiuta il matrimonio. Il padre è costretto a giurare di accontentarla, ma ordina alla di lei nutrice, Sutlu-memè (“seno di latte”; ritroviamo questo nome nel racconto horror orientale Vathek, che è del 1784; dunque il suo autore, William Beckford, conosceva le fiabe di Pétis), di narrarle molte storie di virtù e di eroismi maschili per dissuaderla e convertirla. L’Histoire du Prince Calaf e de la Princesse de Chine occupa le giornate 45-48 e poi 60-84, essendo interrotta – come nel sistema di scatole cinesi delle Mille e una notte – da un altro racconto. Nella storia troviamo i nomi che conosciamo: il protagonista si chiama Khalaf, suo padre Timurtasch, re di una tribù tartara; l’Imperatore della Cina Altoun-khan; e il termine “Khan” ci dice che siamo in una Cina di fantasia, il cui dio si chiama Bergingouzine. La principessa infine ha un nome per la prima volta, che nell’originale francese è Tourandocte. Il giovanissimo principe Khalaf, espropriato del suo potere ed esiliato dalla regione del Kharizme, a sud-est del lago di Aral, giunge in incognito a Pechino, assiste al lugubre cerimoniale notturno della decapitazione del diciottenne principe di Samarcanda e apprende che l’imperatore fa eseguire questo supplizio di notte, contro la legge che impone orario diurno, perché è in forte imbarazzo per la crudeltà della figlia. Un vecchio in lacrime, precettore del condannato, narra la triste storia a Khalaf con parole di esecrazione e getta via un ritratto di Tourandocte. Khalaf lo prende senza temere di innamorarsi, ma il suo orrore per la principessa è solo teorico, gli basta guardare il ritratto per rimanerne incantato. “Dovevo amarla, era il mio destino”: Tutti tentano di dissuaderlo dall’affrontare la prova, in prima fila l’imperatore stesso. Ma: “Vi confesso che la crudeltà stessa di Vostra figlia eccita vivamente il mio amore. Alla prova Khalaf si presenta in un mantello di seta rossa a fiori d’oro e scarpe azzurre; Tourandocte ha una lunga veste di seta intessuta d’oro e un velo della stessa stoffa sul viso. Dopo che Khalaf azzecca i due primi indovinelli – il sole e il mare - lei solleva il velo per turbarlo, e si veda la sua testa “adorna di fiori naturali disposti con arte squisita”. Indovinato il terzo enigma – l’anno – Khalaf contropropone: come si chiama il principe che dopo aver mendicato e sofferto ora è al colmo della gioia? Ritiratasi tra le ancelle, Tourandocte fa grandi scenate di disperazione, mentre il principe, ospite dell’imperatore, partecipa a sontuosi festeggiamenti e spettacoli che la storia descrive per molte pagine. Nelle sue stanze si introduce poi una schiava lussuosamente abbigliata, che si rivela figlia del khan che lo aveva generosamente soccorso e ospitato prima di arrivare a Pechino. Gli svela poi che la principessa vuole farlo uccidere e gli strappa la soluzione dell’enigma. Alla proposta di fuggire con lei Khalaf rifiuta con sdegno, e la schiava, incollerita, fugge. Torandocte può così proclamare la soluzione dell’enigma davanti a tutti, ma subito dopo confessa l’intrigo organizzato con la sua ancella e lo accetta come sposo. Sconvolta dall’uso che la sua padrona ha fatto della preziosa informazione la schiava-principessa si pugnala davanti a tutta la corte. Dal grido di disperazione di Tourandocte apprendiamo che il suo nome è Adlelmulk, che significa “giustizia del regno”; in successive traduzioni diventerà Adelmulk e Adelmuc, in Gozzi Adelma – nome di etimo germanica (“adel” vuol dire “nobile”). Il dolore di Tourandocte e di Altoun è sincero e le cerimonie funebri che ordinano in onore di Adlelmulk sono lunghissime e imponenti. Ma subito dopo si passa alla gioia generale per le nozze dei due principi, che avranno in seguito due bellissimi figli maschi. Chi vuole può leggere la lunga cronaca della guerra con cui Timurtasch si riprende il suo regno. Non abbiamo dimenticato, vero?, che questa è una favola per convincere la bella Farrukhnaz che gli uomini non sono poi il diavolo. Ma ecco come commenta lei con la sua nutrice: “Per me era più vanaglorioso che innamorato, e alquanto stordito”. Ci vorranno molti altri racconti per convincerla a sposarsi.

La prima trasformazione della favola per il teatro viene realizzata da Lesage, già revisore de Les Milles et un Jour di Petìs alla stesura della raccolta. Insieme a Jacques Philippe d’Orneval ne ricava il vaudeville La princesse de la Chine. Rappresentato all’Opéra-Comique di Parigi nel 1729 (alcune stampe d’epoca che rappresentano lo spettacolo sono datate 1724) e stampato nel 1731, contiene la modifica dei nomi e l’inserimento dei personaggi di Arlequin e Pierrot. Carlo Gozzi (1720 –1806), drammaturgo e scrittore veneziano, la conosce e prosegue autorevolmente la commistione tra Oriente favoloso e Commedia dell’Arte nostrana. Del lungo racconto di Pétis fa una commedia, o fiaba teatrale, in cinque atti e in versi che va in scena al Teatro San Samuele di Venezia nel gennaio 1762. C’è da chiedersi quanto la sua “fola” potesse essere familiare alle “avole” veneziane – come scrive in prefazione - quando in occidente il racconto era conosciuto solo in francese e solo dal 1710. È evidente che si riferisca a una trasmissione verbale che siamo tutti impotenti a ricostruire; come è a questo punto evidente che per secoli i racconti di Les Mille et une Nuits e Les Mills et un Jour siano stati oggetto di trasmissione orale anche nei porti italiani; del resto Ariosto, come abbiamo visto, conosceva il racconto che fa da cornice alle Mille e una Notte.

Molto più ammirate all’estero che in patria, le fiabe teatrali gozziane includono, prima di Turandot, L'amore delle tre melarance, Il corvoe Il re cervo; nei tre anni seguenti La donna serpente, Zobeide, Il mostro turchino, L'augellino bel verde e Zeim, Re de' Geni. L’insieme di racconto fantastico e di presenza sentenzioso-grottesca delle maschere veneziane e napoletane non le rende popolari. Pantalone, Tartaglia, Brighella e Truffaldino collocati in Cina sono il tentativo di combinare folklore orientale e folklore nostrano. Una ristampa di fine Ottocento parla di “solito fondo di riti ed usanze e barbarie orientali, che ai Veneziani, già conquistatori dell’Oriente ed ora perdenti ad una ad una le loro conquiste, piaceva oltre modo, forse come un ricordo di domestiche glorie”.

Ma in Germania le fiabe di Gozzi piacciono e nel 1777 è pubblicata una traduzione completa in prosa a firma di Friedrich August Werthes. Quando a fine Settecento il teatro di Weimar in Turingia (nella Germania centro-orientale) viene gestito da Wolfgang Goethe e da Friedrich Schiller, quest’ultimo decide di tradurre proprio la fiaba teatrale di Gozzi che a noi interessa. La commistione di favola e di filosofia lo affascina e la sua traduzione attira gli intellettuali tedeschi. Ma Turandot è un testo che secondo il gusto tedesco dell’epoca va reso meno ironico e più impegnato. Che si contrappongano due concezioni letterarie opposte, razionalismo e romanticismo, lo prova ciò che Schiller scrive a un amico nel 1802: “pur non mutando nulla nella trama, spero tuttavia di accrescerne il valore con un intervento poetico: è stata infatti composta all’insegna della ragione, ma le manca…vitalità poetica. Le figure sembrano marionette, e tutto è pervaso da una certa rigidità pedantesca che è bene rimuovere”. Sfugge al grande poeta germanico l’elemento grottesco, straniante, della presenza di Tartaglia e Pantalone nella Pechino delle favole, mentre gli sembra essenziale il “protofemminismo” – è termine di oggi - di Turandot. Nel 1802 la commedia viene trovata noiosa, e allora Goethe e Schiller hanno un’idea brillante: ogni sera la principessa decapitatrice proporrà tre indovinelli diversi. Uno ne compone lo stesso Goethe e le recite diventano un divertente gioco di società. Oggi sappiamo, da documenti conservati nel Fondo Gozzi a Venezia, che anche Gozzi aveva scritto indovinelli diversi da inserire nelle repliche teatrali previste in altre città venete.

Il successo in Germania è all’origine di una serie di creazioni musicali. Oltre alle musiche di scena di Weber nel 1809, un’ouverture e di sei brani Op. 37, tra il 1802 e il 1882 si avvicendano Friedrich Ludwig Seidl, Joseph von Blumenthal, Vinzenz Lachner, Hermann von Löwenskjold, Franz Danzi, Carl Gottlieb Reisinger, Theobald Rehbaum, Hugo Neumeister; un elenco di Komische Opern, Singspiele e balletti che testimoniano il successo di quello spettacolo weimariano nell’elegante versione di Schiller.

Tra il 1812 e il 1822 i fratelli Jakob e Wilhelm Grimm pubblicano il patrimonio delle fiabe germaniche, attingendo da molte fonti che in buona fede credono essere tutte la voce del popolo. Abbiamo detto che “L’indovinello” presenta elementi che compaiono in Turandot. Ma altre fiabe di quella raccolta contengono aspetti anche più “turandottiani”. Vom klugen Schneiderlein (Storia del saggio piccolo sarto) comincia con “una principessa molto superba: ogni volta che si presentava un pretendente, ella gli proponeva un indovinello, e se egli non sapeva risolverlo lo scacciava deridendolo. Fece sapere, inoltre, che colui che avesse indovinato l'avrebbe sposata; e poteva presentarsi chi voleva”. Il solito figlio minore si presenta e indovina il colore di due particolari capelli della principessa. La seconda prova consiste nel passare la notte insieme a un orso, e il giovane vince con una serie di astuzie. Das Meerhäschen (“Il leprotto marino”, animale del genere del sarchiapone) ha un esordio in sintonia con il libretto di Puccini. Una principessa abita in un palazzo munito di dodici finestre, dalle quali si può vedere sempre più chiaramente in progressione. “Siccome era superba e non voleva sottomettersi a nessuno ma regnare da sola, bandì che sarebbe diventato suo sposo soltanto chi sapesse nascondersi in modo che lei non riuscisse a scovarlo. Ma chi avesse tentato e fosse stato scoperto, gli avrebbero mozzato la testa e l’avrebbero infilata su un palo. Giù davanti al castello si rizzavano novantasette pali con teste mozze, e per molto tempo non si presentò nessuno. La principessa era contenta e pensava ‘Resterò libera per tutta la vita’” Qui l’eroe vince grazie ai consigli di una volpe.

La Francia contribuisce con il racconto Petit-Jean et la princesse devineresse, che si trova nei Contes populaires de Basse-Bretagne di François-Marie Luzel, pubblicati nel 1871. Traduco l’esordio: “C’era una volta un re di Francia che aveva una figlia, la quale era abilissima negli indovinelli. Passava tutto il suo tempo a risolvere enigmi e problemi di ogni sorta e non ne trovava mai di abbastanza difficili, tanto che i più complicati e oscuri per lei non erano che un gioco. Fece bandire per il reame che avrebbe preso in sposo colui, chiunque fosse, che le proponesse un enigma di cui lei non trovasse la soluzione entro tre giorni. Ma in compenso, a ogni problema da lei risolto, colui che l’aveva proposto sarebbe stato subito messo a morte….Li riceveva dall’alto di un balcone, tutta vestita di rosso, con una corona d’oro sulla testa e una stella di diamanti in fronte .. e l’aria altera e crudele da tiranna. Tutt’intorno alla corte si vedevano appesi i cadaveri e gli scheletri delle sue vittime”.

In Italia entra ora in scena un letterato germanista e traduttore del calibro di Andrea Maffei (1798- 1885). È tramite cruciale tra le letterature tedesca e inglese e la cultura italiana; traduce Klopstock, Byron, Schiller; apre un importantissimo salotto letterario a Milano con la moglie Clara Carrara Spinelli; i due coniugi diventano intimi amici di Bellini e Verdi, e di molti altri artisti. Maffei è indispensabile collaboratore ai libretti verdiani di Macbeth e I masnadieri. Negli anni ’50 traduce Milton, ancora Byron, Thomas Moore. Nel 1863 pubblica insieme la sue più importanti traduzioni, Macbeth di Shakespeare e Turandot di Schiller. A proposito di Gozzi, Maffei scrive parole forti: “mi venne desiderio di rileggerne l’originale italiano per vedere e notare i passi dallo Schiller mutati; e con mio stupore trovai che ben di poco il poeta straniero si era allontanato dal nostro. A che dunque vuolsi attribuire l’oblio nel quale è caduta in Italia la Turandot di Carlo Gozzi, mentre in Germania e si legge e si ascolta con sempre nuovo piacere? Non ad altro fuori che alla negligenza della lingua e del verso. Lo Schiller altro non fece che sostituire il suo nobile e poetico stile al volgarissimo e spesso abbietto del Gozzi: ecco tutto il prestigio.»

È dunque la traduzione di Maffei a ispirare la prima opera lirica di Antonio Bazzini (1818-1897), che va in scena alla Scala nel 1867 su libretto di Antonio Gazzoletti: Turanda. Da tener presente che il Bazzini, insegnante di composizione al Conservatorio di Milano, ha fra i suoi allievi Catalani, Mascagni e Puccini. Ma l’opera non ha successo né repliche. È ancora Maffei a ispirare il commediografo piemontese Giuseppe Giacosa, anch’egli destinato a venir ricordato solo come librettista, si ispira alla Turandot di Maffei - Schiller per un suo testo teatrale di successo, Il Trionfo d’Amore, del 1875. Una nobildonna valdostana si oppone all’amore e al matrimonio ma è già innamorata fin dall’alzarsi del sipario e si arrende molto più facilmente della principessa persiano-cinese.

Quando nel 1891 Oscar Wilde crea, direttamente in francese, ma ovviamente con revisione del poeta Pierre Louys, la tragedia in un atto Salomé, crea un testo così audace e iconoclasta che nemmeno Sarah Bernhardt osa portarlo in scena. Stampata nel 1893, rappresentata nel 1896 tra censure e anatemi, è un tragedia in un atto che parla della bellissima principessina figliastra di Erode, nella Bibbia appena accennata, qui sfrenatamente cinica e crudele, che riesce a ottenere non solo la decapitazione, ma la stessa testa del profeta Giovanni Battista, qui chiamato Jokanaan. A quest’uomo uomo giovane e bello che non solo le rivolge esclusivamente insulti, ma non la vede nemmeno Salomé, ricevuto su un vassoio il capo mozzato, ne bacia la bocca. Il tutto in una notte ricca di erotismo allucinato e di necrofilia. Una luna cadaverica e ostile sovrasta la scena. È certo che i librettisti della Turandot pucciniana la conoscono e ne traggono ispirazione per il lugubre testo del coro “Perché tarda la luna?” Ogni personaggio descrive una luna sinistra. La seconda battuta della Salomé di Wilde dà il tono a tutta la tragedia. Il paggio di Erodiade: “Guardate la luna. La luna ha un’aria molta strana. Si direbbe una donna che esce dalla tomba. Assomiglia a una donna morta. Si direbbe che cerchi dei morti”. Poi parla Salomè: “Come è bello vedere la luna ! Assomiglia a una monetina. Si direbbe un piccolo fiorellino d’argento. È fredda e casta la luna…Sono sicura che è vergine. Ha la bellezza di una vergine”. Di nuovo il Paggio: “ Oh, come ha l’aria strana la luna! Si direbbe la mano di una morta che cerca di coprirsi con un sudario”. Il giovane siriano Narraboth conferma: “Ha un’aria molto strana…Attraverso le nuvole di mussola viene fuori come una principessina. Sono sicuro che è casta…” Il paggio di Erodiade rinforza l’accentuazione necrofila: “Sapevo bene che la luna cercava un morto, ma non sapevo che era lui quello che cercava”. Il tetrarca Erode, pervaso di lussuria, ha ancora un’altra visione della luna: “ha l’aria molto strana stasera. Non è vero che la luna ha l’aria molto strana? La si direbbe una donna isterica, che va cercando amanti dappertutto. È anche nuda. È tutta nuda. Le nuvole cercano di vestirla, ma lei non vuole. Barcolla attraverso le nuvole come una donna ubriaca…Assomiglia a una donna isterica, non è vero?” Fredda e cinica, Erodiade commenta “Quelli là sono pazzi. Hanno guardato troppo la luna”. Il gelido pianeta che sovrasta la vicenda non smette di angosciare Erode: “Il profeta lo ha predetto, che la luna sarebbe diventata rossa come il sangue. Non è vero che ha predetto tutto ciò? La luna è diventata rossa come il sangue, non la vedete?” Cercando invano di evitare di uccidere Jokanaan, promette a Salomé regali favolosi in cambio della testa: “Ti darò cinquanta dei miei pavoni bianchi, ti seguiranno dappertutto, e in mezzo a loro sarai come la luna in una grande nuvola bianca”. Infine il testo si chiude sul suo ordine folle “Spegnate le fiaccole! Nascondete la luna”. Minore presenza ha nel testo la decapitazione: Erode, sempre tentando di dissuadere Salomé, le dice “La testa di un uomo decapitato è una cosa brutta, non è vero? Non è una cosa che una vergine dovrebbe guardare. Che piacere potrebbe darti? Nessuno”. E il terrificante finale con il bacio alla testa mozza si ingigantisce con le parole “ Ebbene, Jokanaan, io vivo ancora, ma tu sei morto e la tua testa mi appartiene, Posso farne quello che voglio”.

In tutta Europa, particolarmente nei paesi slavi, infuria la “Salomania”, ossia la smania di inscenare l’iconoclastica pièce di Wilde, nonostante i divieti delle chiese cristiane e ortodosse. Il regista Max Reinhardt porta sulle scene la Turandot di Gozzi in una nuova traduzione firmata Karl Vollmöller, accentuando la crudeltà della principessa cinese sotto l’influsso della perversa creaturina di Wilde, e con musiche di scena composte per l’occasione da Ferruccio Busoni. La suite orchestrale op. 41 di Busoni viene eseguita per la prima volta nel 1906 e in seguito ampliata a opera lirica, Turandot, traendo il libretto in tedesco direttamente dalla commedia di Gozzi. La temperie critica, il gusto sono cambiati, ora è Schiller ad apparire troppo sentimentale, mentre piace la secca e un po’ pedante ironia del commediografo veneziano. Rappresentata nel 1917, “l’altra Turandot “ avrà tra le sue protagoniste femminili Gabriella Gatti, Maria Carbone, Magda Laszlo, Raina Kabaivanska, Margherita Roberti, Virginia Zeani.

L’interesse di Puccini nasce nel 1920. È il veronese Renato Simoni (1875 - 1952), critico, commediografo, sinologo e vivace corrispondente dalla Cina, a segnalargli la traduzione di Maffei della Turandot di Schiller da Gozzi. È divertente rintracciare nelle ironiche cronache cinesi di Simoni “i monti dell’Est”, “lo sconfinato passeraio” della popolazione, “campanelli, e violini striduli, e nàcchere e timpani, e tamburi di terra cotta”, “i libri sacri”, tutto un orientalismo ancora molto di maniera più che cronachistico. Aggiungiamo che Simoni ha dato alle scene la commedia Carlo Gozzi nel 1903. L’altro librettista è anche lui veronese: Giuseppe Adami (1878-1946). Suoi sono i libretti de La rondine e Il tabarro; il soggetto della fiaba coreografica Le mille e una notte presentata alla Scala nel 1931 ( ma la storia si svolge a New York, e la protagonista è la direttrice di una centrale telefonica di cui si innamora lo Scià di Persia in vacanza), Di Adami è la commedia più milanese che ci sia, Felicita Colombo, fra l’altro interpretata anche da Franca Valeri.

Nel marzo 1920 Puccini scrive:“Caro Simoni, Ho letto Turandot, mi pare che non convenga staccarsi da questo soggetto. Ieri parlai con una signora straniera, la quale mi disse di questo lavoro dato in Germania con mise en scène di Max Reinhardt in modo molto curioso e originale. Scriverò per avere le fotografie di questa mise en scène, e così vedremo anche noi di che cosa si tratta. Ma per mio conto consiglierei di attaccarsi a questo soggetto. Semplificarlo per il numero degli atti e lavorarlo per renderlo snello, efficace e soprattutto esaltare la passione amorosa di Turandot che per tanto tempo ha soffocato sotto la cenere del suo grande orgoglio”. Nella concezione di Reinhardt, spiega Puccini, Turandot è “una donnina piccola piccola; attorniata da uomini di statura alta, scelti a posta; grandi sedie, grandi mobili, e questa donnina viperina e con un cuore strano di isterica”. Infine stimola i suoi due amici a fornirgli il testo quanto prima:Non avendo libretto come faccio della musica? Ho quel gran difetto di scriverla solamente quando i miei carnefici burattini si muovono sulla scena”.

Il libretto di Turandot per Puccini elimina le maschere veneziane su antico consiglio di Andrea Maffei: «Qualora si volesse mettere sulle nostre scene la Turandot, converrebbe dar altro nome alle quattro maschere oggidì non tollerabili». Adami e Simoni trasformano le quattro marionette veneziane, che Schiller ha frainteso, in tre ministri cinesi, di buon senso, realistici, ironici. La schiava Adelma, in Gozzi di Turandot, diventa Liù, schiava di Timur. Due elementi nuovi, che non esistono nelle fonti, sono l’inizio con il Mandarino che legge il feroce decreto e il tumulto della folla assetata di sangue ma anche facile a impietosirsi, organismo umorale e contraddittorio. Il fatto che Calaf ritrovi il padre, e non, come in Gozzi e in Busoni, il suo precettore Assan/Barak amplifica l’emotività delle prime scene. Emotività aumentata dalla mite schiavetta Liù, invano innamorata del suo principe. Chi scrive ricorda come solo quarant’anni fa per il grande pubblico la vera protagonista, la grande pucciniana era Liù; la dura e wagneriana “principessa di gelo” non destava emozioni; il finale incompleto dopo il corteo funebre di Liù non era il luogo più popolare.

Altra invenzione dei due librettisti e di Puccini è lo spirito dell’antenata Lo-u-ling, che ossessiona Turandot. Si è detto che ne è letteralmente posseduta. Una volta sconfitta da Calaf, infatti, è angosciata all’idea di essere “posseduta” da lui. La possessione finisce, affermano gli esperti del soprannaturale, quando una vittima si sacrifica al posto del posseduto; più che il bacio di Calaf, sarebbe la morte della schiava a liberare la protagonista.

Ogni tanto si sente ancora pronunciare alla francese, Tȕrandò. Il motivo è che il francese è stato per secoli la sola lingua straniera conosciuta in Italia, e quindi nel mondo dell’opera è sempre stato normale pronunciare Seymour, Percy, Edgar, Wally e molti altri nomi inglesi e germanici inglobandoli nella sola cultura linguistica conosciuta. In persiano il nome Turandocht significa “figlia del Turan”. Ossia del bassopiano turanico, immensa area dell’attuale Turkmenistan, aiconfini con Iran, Uzbekistan e Kazakistan. Per tradizione culturale “Turan” vuol dire genericamente Asia centrale, non Cina. La parola “figlia” in Indoeuropeo è dhugheter. È uguale in sanscrito, è thygàter in greco classico, dokhter protogermanico (da cui l’inglese daughter e il tedesco moderno Tochter). È vero che in versione cinese la nostra principessa ha nome Tulanduò, ma non è all’origine un personaggio cinese: numerosi manoscritti sparpagliati nelle biblioteche europee ne riportano la storia in varie lingue del Medio Oriente e in indiano.

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