L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La via di redenzione

 di Luigi Raso

Risplende la stella di Juraj Valčuha nella Fanciulla del West inaugurale della stagione partenopea. Nel cast vocale si distinguono i protagonisti maschili Claudio Sgura e Roberto Aronica, visivamente piacevole l'allestimento di Hugo De Ana.

NAPOLI, 13 dicembre 2017 - “…non v’è, al mondo, peccatore cui non s’apra una via di redenzione… Sappia ognuno di voi chiudere in sé questa suprema verità d’amore”: così commenta Minnie ai minatori del Golden West il Salmo 51 di Davide: possibilità di redenzione per ogni peccatore. Potrebbe sembrare l’incipit di un dramma wagneriano, ma è Giacomo Puccini, il quale - cosa rara! - non attribuisce all’amore una forza annientatrice, espiatoria, bensì redentrice. Minnie, diversamente dalle altre eroine del teatro pucciniano (Manon, Mimì, Floria Tosca, Cio Cio San) che la precedono, e dalle successive Magda, Suor Angelica, Giorgetta, Liù, non è votata al sacrificio per la “colpa” di aver amato.

Nelle ultime parole “t'amo tanto e muoio” pronunciate da Manon Lescaut, divorata dalla sete nell’arida landa nei pressi di New Orleans, è racchiusa la poetica, tutta έρως και θάνατος (eros kai thanatos), dell’amore, donne, passione e morte secondo Puccini: amare e, poi, morire, amare è morire.  “Chi ha vissuto per amore/ per amore si morì…È la storia di Mimì”, declama il venditore, in lontananza, nel Tabarro; l’elenco potrebbe - noiosamente - continuare. Fermiamoci qui.

Sul binomio in Puccini amore = colpa, Mosco Carner, nel lontano 1958, elaborò una suggestiva spiegazione psicanalitica, fondata sulla commistione tra il particolare rapporto di ammirazione costruitosi tra Giacomo Puccini e la madre, a seguito della prematura scomparsa del padre Michele, e gli amori e amorazzi del compositore lucchese e sul conseguente senso di colpa che sfocia nell’espiatorio sadismo del compositore nei confronti delle eroine dei suoi drammi  (basti citare la tortura psicologica alla quale viene sottoposta Floria Tosca).

Si potrebbe ipotizzare che con La Fanciulla del West Puccini abbia soltanto temporaneamente superato quel contorto complesso edipico (Suor Angelica, Giorgetta e Liù dimostreranno che non è affatto risolto), riuscendo a scorgere nella donna uno “strumento” di redenzione, piuttosto che di dannazione.  E ciò avveniva proprio nel periodo più drammatico della vita personale e coniugale dell’uomo Giacomo, terribilmente scosso dalla tragica vicenda del suicidio, nel 1909, l’anno antecedente la prima della Fanciulla del West, di Doria Manfredi, ritenuta e additata, a torto, amante del Maestro dalla moglie Elvira. Minnie, unica protagonista femminile dell’opera (fatta eccezione per la fugace apparizione dell’indiana Wowkle all’inizio del secondo atto), è l’unico raggio di sole su un’umanità di derelitti minatori, cercatori nella California della febbre dell’oro, ossessione erotica dello sceriffo Jack Rance, ma soprattutto è il “solo fiore” della vita del bandito redento Ramerrez/Dick Johnson.

Abbandonato l’esotismo “orientale” della precedente Madama Butterfly (1904), Puccini, sempre alla ricerca di sperimentazioni, di raffinatezze armoniche, ritmiche e strumentali, si immerge in quell’american heritage musicale, costituito da cake walk, melodie indiane, folklore musicale nordamericano, ritmi sincopati, così come di un valzer, parente non troppo alla lontana di quelle danze spettrali di Gustav Mahler (1860-1911), i quali, insieme all’ambientazione inequivocabilmente da Wild West,  contribuiscono a creare un western ante litteram, una sorta di colonna sonora per film. Chi volesse ostinarsi a tacciare Puccini di provincialismo musicale e di sentimentalismo a buon mercato, potrebbe ricredersene ascoltando quest’opera; con La fanciulla del West sembra perfezionarsi la tecnica compositiva “cinematografica” pucciniana: “inquadrature musicali” di oggetti, anche insignificanti (una cuffietta, una chiave che cade, un coltello, un kimono, gocce di sangue, carte da gioco, ecc), di gesti quotidiani, in modo da infondere a bozzetti drammaturgici una suspense tipicamente propria del nascente linguaggio cinematografico (si pensi all’effetto ottenuto tramite il pizzicato dei contrabbassi durante la partita a poker tra Minnie e Jack Rance nel finale dell’atto II). 

Opera di transizione, ma di compiuta modernità, influenzata edapprezzata dai suoi contemporanei, Maurice Ravel in primis, e dall’evidente empito e connotazione sinfonica. L’orchestra, di grandi dimensioni, può essere intesa quale la protagonista dell’opera: da essa germogliano le melodie vocali, da essa emanano le mutevoli atmosfere delle quali è sapientemente disseminata l’opera. Un’orchestrazione complessa, figlia della temperie musicale dell’inizio del ‘900, che si avvale anche dell’uso di suoni flautati per gli archi, amata da direttori dalla spiccata vocazione sinfonica, dominatori e incantatori orchestrali del calibro di - giusto per citarne alcuni - Dimitri Mitropoulos, il quale arrivò a sognare un’esecuzione soltanto orchestrale dell’opera, senza cantanti, dopo averne licenziato la più vibrante interpretazione (al Maggio Musicale Fiorentino,  nel 1954), Zubin Mehta (in disco, per quella che è probabilmente la più bella edizione: Domingo, Neblett e Milnes) sino ad arrivare all’analitico e coltissimo Giuseppe Sinopoli (illuminanti le sue letture berlinesi e scaligere), passando per l’immediatezza di Lorin Maazel (alla Scala nel 1991) e Riccardo Chailly  (nel 2016, ancora al Piermarini) nella versione originale della partitura, priva dei tagli voluti da Toscanini ante prima del 1910.   

Quanto all’edizione dell’inaugurazione della stagione lirica e di balletto 2017 – 2018, la direzione di Juraj Valčuha riesce a contemperare lo spiccato sinfonismo della partitura, le sue  preziosità strumentali, con le esigenze del canto, stendendo un morbido e duttile cuscino sonoro sul quale adagiare e sostenere le voci. In linea con lo sviluppo della trama, immerge (in particolare per l’atto I) l’opera in un’atmosfera nostalgica, rivolta al passato: tutti i personaggi vivono nel loro passato, ricordano sogni, incontri, terre e persone amate lontane. Un secondo atto dalla giusta temperatura passionale apre alle terse sonorità dell’alba brumosa sulla radura californiana e alla mestizia del canto dei minatori (“No, mai più, no! ritornerai!… Addio!… mai più!”). Una concertazione in definitiva, che conferma il felice esito di quella d’esordio al San Carlo nelle vesti di direttore musicale nello scorso mese d’aprile (Elektra: leggi la recensione) e della Carmen estiva (leggi la recensione).

L’orchestra, in forma smagliante in tutte le sue sezioni, versatile, appare ricettiva delle indicazioni del direttore, precisa e generatrice di “bel suono”.

Solo un appunto: è demodé tagliare, come da trita tradizione, le (sole) diciassette battute conclusive del duetto tra Johnson e Minnie nel secondo atto (“....eternamente in estasi santa d’amor, verso la vita, sotto più fulgido ciel! Ah, vivrem nella pace! Vivremo di bontà! Mia gioia, o amor! Con te, mio amor, con te!”).

Il coro, diretto da Marco Faelli, è corretto, sempre idiomatico e, ben fondendosi con l’orchestra, fornisce un contributo essenziale alla creazione della “tinta” dell’intera opera.

L’aspetto vocale della produzione mostra luci e ombre. Perfettamente a suo agio vocalmente e convincente scenicamente il Jack Rance di Claudio Sgura: voce timbrata, dal caldo colore scuro, dalla linea di canto misurata, il baritono pugliese si è imposto per un’interpretazione sempre pertinente al personaggio. Roberto Aronica veste i panni del bandito Dick Johnson fornendo una sue migliori interpretazioni: appassionato, espressivo, voce squillante in alto e brunita nel registro medio – basso (sul quale poggia per lo più la parte), sostiene il canto con costante ed espressivo legato.

Purtroppo la protagonista dell’opera, la Minnie della statunitense Emily Magee, ha voce alquanto prosciugata; la linea di canto, dall’organizzazione poco ortodossa, troppo spesso sfocia in un poco elegante “parlato”; gli acuti non mancano, ma non sono sufficienti a fare Minnie. La dizione evoca troppo spesso quella di un italoamericano della Little Italy a New York. Una prestazione che complessivamente desta molte perplessità, proprio per gli evidenti limiti vocali.

In un’opera dove i comprimari giocano un ruolo di importanza non secondaria, contribuendo a comporre le tessere di questo mosaico musicale, si segnalano, per professionalità e competenza, il Sonora di Gianfranco Montresor e il Sid di Paolo Orecchia. Particolarmente intenso il Jake Wallace di Carlo Checchi nella mesta cantilena “Che faranno i vecchi miei là lontano?”. Una menzione merita il Nick di Bruno Lazzaretti che si distingue per musicalità, esperienza e aderenza scenica. Un cameo da ricordare.

Hugo De Ana, che firma regia, scene e costumi, insieme a Vinicio Cheli quale Light Designer e Sergio Metalli Projection Designer, propone una lettura della Fanciulla del West nel solco della tradizione, rispettosa delle didascalie del libretto, piacevole allo sguardo. Su un impianto scenico unico di suggestiva bellezza si innestano la “Polka”, popolata da minatori sempre propensi a impugnare pistole, fucili, bere e giocare a carte, la povera capanna di Minnie che si troverà nel bel mezzo di una tormenta di neve, realizzata attraverso efficacissime e verosimili proiezioni. Nell’atto III c’è tutto ciò che occorre: un cappio che non verrà azionato, lo sfondo desolato della California, tanta violenza, molti fucili e pistole e tanta umanità, redenta dal raggio di sole irradiato da Minnie. Movimenti scenici dei protagonisti e del coro molto curati nel loro realismo.

Una considerazione conclusiva: dispiace notare che un’opera assente dal San Carlo da ben quarantadue anni abbia attratto un pubblico sparuto e frettoloso. Al termine applausi per tutti.

foto L. Romano


 

 

 
 
 

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