L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Nel concavo cielo sfavilla

 di Andrea R. G. Pedrotti

Il ritorno all'Arena di Aida nell'allestimento di Franco Zeffirelli è impreziosito da una formidabile compagnia di canto: Anna Pirozzi, Yusif Eyvazov, Violeta Urmana, Luca Salsi e Vitalij Kowaljow sono interpreti d'altissimo livello e la concertazione di Jordi Bernàrcer corona l'ottima riuscita anche musicale del capolavoro verdiano.

VERONA, 23 giugno 2018 - Si era fatta attendere, ma finalmente la rituale magia dell’Arena è tornata a risplendere e non poteva essere altro che con Aida, il suo titolo più rappresentativo.

Il portare sulla scena musica cosiddetta colta, non significa che questa debba essere seriosa, d’altra parte l’idea stessa di trasformare l’anfiteatro veronese in un grande palcoscenico per gli spettacoli lirici non è altro che un gioco, un gioco d'annunziano, ma pur sempre un gioco.

La regia di Franco Zeffirelli rappresenta questo tipo di trastullo, con il suo insieme di elementi scenici ammucchiati in ordinata confusione: un Ramesse assiso al centro di una piramide, le sfingi di Menfi, Anubi e Horus giustamente presenti nella tomba di Aida e Radames.

Lo spettacolo dell’Arena è quel meraviglioso sogno collettivo che fu di Serafin e Zenatello, un sogno che, se riesce a venire in luce, coinvolge tutto l’anfiteatro, non solo la rappresentazione. La luce del manifestarsi di questo gioco sognante sono le candeline che la sera del 23 giugno sono tornate a brillare ai piedi dell’Ala dell’Arena. Aida è rituale anche nel soggetto, un Egitto che, nel 1913 del debutto nell'anfiteatro, era ancora ammantato di mistero e la sua scrittura aveva da poco iniziato a svelare gli arcani di una fra le civiltà più affascinanti e misteriose d’ogni tempo.

Anche il sogno dell’Arena è un giocoso mistero di fascino e suggestione e la suggestione è tornata per ognuno. Non importa se, come nel caso del sottoscritto, si sia assistito dozzine di volte ad Aida in Arena, o si giunga per la prima volta nell’anfiteatro: la catarsi è la medesima, il senso di purificazione che consente al pubblico di non relegare la dinamicità della propria fantasia prima al ricordo, poi all’oblio. L’Arena rivela quella fanciullezza repressa che dovrebbe esser parte di tutti noi e che rende affascinanti le variopinte scene zeffirelliane, forse ridondanti, forse manierate, ma che, in una serata dove musicalmente funziona tutto e l’incantesimo areniano si compie, sanno fondersi e sorridere con serenità di fronte all’ingresso degli arcieri del faraone o ai rituali di Ramfis.

Il pubblico melomane più integralista potrebbe sentirsi scandalizzato, ma, al contrario è bello sentire dietro di sé una ragazza, non più giovanissima, canticchiare la marcia trionfale o un anziano signore, che raccontava di essersi specializzato in medicina interna a Verona quando venne costruito il policlinico di Borgo Roma (parliamo di oltre quarant’anni fa, dunque), alzarsi sulla sua poltroncina, apparentemente ringiovanito di mezzo secolo, con gli occhi brillanti all’apparire delle argentee trombe del trionfo di Radames. Questa è l’Arena e questo deve essere.

La riuscita della serata non sarebbe stata possibile se non fosse stata scritturata, per questa prima, una compagnia di canto ai massimi livelli internazionali.

Anna Pirozzi è stata un’Aida esemplare, pura nella linea di canto, capace di eseguire dei pianissimi emozionanti senza la minima incertezza. È partecipe nella recitazione e dipana un fraseggio di altissimo livello interpretativo nel corso di tutto il terzo atto e nel duetto finale. Splendida la sua esecuzione di “O cieli azzurri”, impreziosita dalla bellezza di un do quale raramente è accaduto di ascoltare in Arena.

Accanto a lei un tenore che abbiamo avuto la fortuna di ascoltare, e apprezzare, come Turiddu al Filarmonico tre anni fa [leggi la recensione]. Yusif Eyvazov, da ottimo artista, grazie alla precisione e all’accuratezza dello studio degli ultimi due anni, ha saputo consacrarsi come uno fra i migliori interpreti al mondo per il suo repertorio. Con la bella voce, sempre più pura nell’emissione, e allo squillo imperioso, mantiene, anzi migliora, la passionalità che ha sempre caratterizzato il suo fraseggio. Raramente si esce da un’Aida rammentando con emozione la linea di canto di una frase come “Nume, che duce e arbitro/ sei d’ogni umana guerra,/ proteggi tu, difendi/ d’Egitto il sacro suol!”, con quell’accento sulla prima sillaba di “sacro” che va addolcendosi su “suol”. Non si può mancar di citare il tono con cui Eyvazov attacca “Nel fiero anelito”, ma che sa spegnersi in dolce elegia in “vivrem beati d’eterno amor.” Forse uno dei suoi momenti più suadenti, tuttavia, resta la mezzavoce con cui chiama, in dolorosa rimembranza, l’amata Aida, ancor prima di scoprire che ella stava per condividere la medesima sorte.

Ottimo, parimenti, l’Amonasro di un Luca Salsi, che sta confermando sempre di meritare i prestigiosi palcoscenici che lo vedono protagonista in questi anni. Di personalità e incisivo sin dal suo ingresso in scena, fraseggia con severo impeto nel terzo atto, rivolgendosi alla figlia, e mantiene un’emissione perennemente sicura e ben proiettata.

Sebbene Violeta Urmana (Amneris) abbia annunciato l’indisposizione, la sua resta una prova di grandissima caratura artistica e l’unico effetto del malessere (che le auguriamo si risolva al più presto) è stato un volume più discreto. La sua principessa egizia è elegantemente passionale come si converrebbe al rango di una figlia del Faraone. La sua prestazione è positiva nel corso di tutta l’opera, ma il suo momento migliore resta la scena del giudizio, quando riesce a portare sul palcoscenico tutta l’emotività di una donna nobile e tormentata, schiacciata dal dovere e dall’imposizione che le viene dall’Egitto impersonificato nella figura del Faraone suo padre, insieme con l’emotività repressa capace di sfogarsi in acuti ottimamente centrati, simbolo di una fermento che chiede a gran voce di palesarsi, fino a esplodere nella fusione fra il bollore della sua interiorità (musicalmente trasmessa dai bassi orchestrali) e il rigore di una melodia, in un tutt’uno nella splendida coda orchestrale della scena.

Bene il Ramfis di Vitalij Kowaljow) e così tutti i comprimari: il Re (Romano Dal Zovo), Un messaggero (Antonelo Ceron) e la sacerdotessa (Francesca Tiburzi).

Il coraggio del direttore d’orchestra, Jordi Bernàrcer, nel ricercare una concertazione più intimistica, è stato felicemente premiato da un esito assai felice. La sua bacchetta guida impeccabilmente un’orchestra che non commette alcun errore e segue diligentemente una linea musicale che sa cogliere le sfumature drammatiche della partitura, adattandole sapientemente alle esigenze di un anfiteatro che non consende di cogliere le modulazioni agogiche che si potrebbero percepire in altri contesti. I momenti di maggiore intimità (tutto il quarto atto) sono esaltati dalla sua direzione e dall’anfiteatro medesimo; la solitudine di Amneris, per esempio, è quasi più percepibile osservando il dolore di una donna sola nel mezzo di un grande palco scrutato da oltre dodicimila persone. Bernàrcer, parimenti, non rinuncia all’impeto con una scena del trionfo caratterizzata dalla giusta accentazione musicale.

Eccellente la prova del coro della Fondazione Arena, diretto da Vito Lombardi, a un livello vocale che non ci compiacevamo di ascoltare da tempo.

Regia e scene erano firmati da Franco Zeffirelli, mentre i bei costumi erano di Anna Anni.

Bene i primi ballerini Beatrice Carbone, Petra Conti e Gabriele Corrado, a interpretare l’assai manierata coreografia di Vladimir Vasiliev. L’unica miglioria sinceramente consigliabile, infatti, sarebbe stato riproporre la coreografia vista nel 2015, a firma di Renato Zanella, molto più fedele a un concetto di ritualità e drammaturgicamente assai più congeniale al testo verdiano. Per esempio rammentiamo come venisse concessa una centralità alla sacerdotessa, fuoco scenico nei ballabili del secondo atto, mentre, al contrario, nella coreografia di Vasiliev, si trova sovente costretta in una posizione defilata, perdendo del carisma che le si converrebbe.

Al termine grande, e meritato, successo per tutti gli interpreti da parte del folto pubblico accorso, con autentiche ovazioni per i quattro protagonisti.


 

 

 
 
 

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