L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Traviata, un’altra

 di Antonino Trotta

Fatica a decollare La traviata del Teatro Coccia di Novara, ultimo titolo del bel cartellone 2018/2019: la regia di Renato Bonajuto fa zapping tra idee e citazioni mentre nei e mende compromettono le prove dei protagonisti, in cui non mancano tuttavia momenti più che apprezzabili. Valida, ma a volte individualista, la concertazione di Matteo Beltrami.

Novara, 5 Maggio 2019 – La traviata in cartellone fa sempre raggelare un po’ il sangue nelle vene: titolo inflazionatissimo perché garanzia di un avido bottino numerico, banco di prova ineluttabile per artisti debuttati o di consolidata esperienza e ricettacolo di tradizioni e tradizionalismi che spesso ne condizionano la riuscita, nel bene e nel male, gli allestimenti di quest’opera rischiano, più degli altri, di essere riposti subitaneamente negli scaffali polverosi della memoria. “Già visto”, “già sentito” è sorte comune a molte delle troppe messinscene che si vedono in giro perché in assenza di colpi di genio, voci particolarmente affascinanti o, tout court, di un motivo davvero consistente per produrre una Traviata, la noia è in agguato fin dal brindisi. Non si sottrae a questo destino La traviata del Teatro Coccia di Novara, titolo conclusivo di una stagione molto applaudita e apprezzata per alcune, interessanti, mosse (Mosè in Egitto o The Beggar’s Opera con la regia di Robert Carsen, che purtroppo non siamo riusciti a seguire in prima persona).

Lascia abbastanza indifferenti il disegno registico di Renato Bonajuto: non gli si disconosce premurosa cura nella visione d’insieme del palcoscenico, attenzione a comprimariato e figuranti o creatività negli ininfluenti dettagli di sfondo, su cui inevitabilmente ripiega l’occhio in cerca di distrazioni, ma l’impressione complessiva, aggravata dai lunghi intervalli, è quello di uno zapping tra soluzioni trite e ritrite, per giunta scollegate tra loro. Così il colpo di scena finale, quando «la vedremo tornare [Violetta, N.d.R.] al Teatro Coccia, alla sua città e quindi alla vita e all’arte, come in un gioco metateatrale dove tutto riparte da dove è iniziato, in maniera circolare», chiude un discorso mai iniziato e, tra luci oniriche e movimenti alla Wilson – che rimandano più alla scena del sonnambulismo di Lady Macbeth che alla morte/rinascita di Violetta –, appare in definitiva piuttosto pretestuoso. I primi due atti, infatti, procedono secondo ordinaria amministrazione: ambientazione anni Sessanta, lussuoso appartamento con balcone spalancato su Piazza Martiri della Libertà – si, siamo a Novara –, dal quale si intravede la silhouette del Teatro Coccia; villa con piscina, magari nelle Langhe, per il primo quadro del secondo atto; quindi il consueto postribolo di casa Bervoix, invero assai bello visivamente, con tanto di spogliarellista e virtuosa pole dancer per intrattenere convitati e ospiti alla ricerca di una seconda gioventù. Ma in due atti niente, al di là della tacita presenza del teatro nelle scenografie di Sergio Seghettini (riprese da Danilo Coppola), introduce il finale pensato da Bonajuto.

Come già si notava in occasione dell’inaugurale Rigoletto, Matteo Beltrami, alla guida dell’Orchestra del Conservatorio Cantelli di Novara, tende a stressare il tessuto ritmico della partitura, ora distendendo all’inverosimile i tempi, ora slanciando i complessi giovanili in accelerando rutilanti e scatti frenetici che in più occasioni hanno destabilizzato l’armonia con la ribalta: è il caso del coro d’introduzione, del tempo d’attacco del duetto Violetta-Germont o del duettino del finale secondo, ad esempio. Laddove i solisti lo consentono, però, le scelte di Beltrami si rivelano decisamente accattivanti: «Dite alla giovine», lentissimo, con lei che ben organizza il fiato e fila, lui che fraseggia con classe, è senza dubbio uno dei passaggi più intensi dell’intera serata. C’è lo sfoggio del particolare strumentale, la ricerca dell’accento drammatico nonostante l’orchestra sia parca di colori, e la direzione, in fin dei conti, convince. Peccato allora per la caduta di qualcheripresa: la musica è come l’amore, più dura e meglio è. Poi, giacché piace così tanto al pubblico, lasciamogliela ascoltare almeno per intero.

Ma veniamo alle voci. Madamigella Valéry è Klára Kolonits, ridente soprano lirico di coloratura in grado di alternare momenti sublimi ad altri di più dubbio effetto. La disinvoltura nel canto di agilità, la plasticità della linea di canto, quando espressa nel registro acuto, la facilità nelle puntature (a dire il vero non sempre a fuoco) e la sopramenzionata abilità nel controllo del fiato le consegnano, chiavi in mano, gli allori di tutto il primo atto, con un duetto iniziale davvero spettacolare. Gli affondi al grave però suonano molto disordinati – la cantante sarebbe molto più a suo agio in altro repertorio – e, sommati a una pronuncia non accuratissima, una recitazione manierata e qualche défaillance, pregiudicano lo spessore del resto dell’opera sicché la sua Violetta, matronale nell’impostazione, stenta a commuovere.

Il timbro non sarà bellissimo, l’emissione tutt’altro che infallibile, tuttavia, sul piano puramente interpretativo, Danilo Formaggia, Alfredo d’emergenza dopo la moria dei tenori, canta con viva partecipazione, si muove con sicurezza sul palcoscenico e, forte di un solido professionismo, porta a segno una recita senza troppe sbavature. Alessandro Luongo non ha certo bisogno di alcune – poche – gigionate fuori misura per imporsi come severo, elegante, sfaccettato Germont: bastano l’aristocrazia nel porgere, la luminosità della linea, l’estrema cura del fraseggio e della parola, articolata con dovizia di sfumature e accenti, per cesellare un personaggio a tutto tondo che sa sciogliersi con Violetta o tenere chiuso il pugno con Alfredo. Diamogliene atto, l’artista più completo sul palcoscenico è lui. Ben fanno alcuni dei comprimari: Blagoj Nacoski (Gastone/Giuseppe) esibisce una voce dal bel timbro e dalla rassicurante impostazione, Carlotta Vichi (Flora), smaliziata in scena, conferma tutte le impressioni positive avute anche il altre circostanze. Corretta la prova del Coro San Gregorio Magno istruito dal Maestro Mauro Rolfi. Completano il cast Marta Calcaterra (Annina), Roberto Gentili (Douphol/Commissionario), Claudio Mannino (Marchese d’Obigny) e Rocco Cavalluzzi (Dottor Grenvil).

Applausi entusiasti e nemmeno un posto vuoto in sala. Non ci si pente del viaggio ma nemmeno si benedice la trasferta: La Traviata al Teatro Coccia di Novara ci lascia così, sospesi nel limbo dell’indifferenza, per uno spettacolo che ha saputo alternare momenti assai interessanti ad altri che, chiusasi la perentesi recensoria, finiranno ben presto nel dimenticatoio.

foto Mario Finotti


 

 

 
 
 

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