L’Ape musicale

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XXXV Rossini Opera Festival

Pesaro 10-22 agosto 2014

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Attorno alla Petite messe solennelle

Sarà la Petite messe solennelle nella versione orchestrale a chiudere, con la direzione di Alberto Zedda, la XXXV edizione del Festival dedicata a Claudio Abbado. Com’è ormai tradizione consolidata e attesa, lo spettacolo verrà videotrasmesso in diretta in Piazza del Popolo a coinvolgimento dell’intera città. Il capolavoro sacro di Rossini nelle due versioni, da camera e sinfonica, è stato ripetutamente eseguito nei nostri teatri nel corso della lunga storia del Rof, ma ogni volta con una ricezione del pubblico impercettibilmente diversa, strettamente legata al divenire della restituzione rossiniana. Su questo sfondo di progressiva chiarificazione la storia esecutiva delle due Petite messe rappresenta un test di grande interesse attuale. Per la sensibilità moderna non sembra esservi dubbio sulla superiorità, musicale e ideologica, e sull’appeal della versione da camera. La severità del linguaggio, il clima di misteriosa nostalgia senza oggetto, la innovativa nudità formale ne fanno il preannuncio della musica del XX secolo. Noi oggi, come posteri, possiamo ancora valutare, pur nei limiti della nostra assuefazione storica, quanto del sound del Novecento sia anticipato nel capolavoro rossiniano; ma non siamo più in grado di immaginare lo sgomento stupore dei contemporanei di allora: almeno quelli capaci di cogliere l’immenso balzo in avanti di questa opera profetica. Un po’ diverso è il discorso riguardo alla versione orchestrale della Messa, sempre più spesso eseguita in tempi moderni. Per tradizione si ritiene che Rossini abbia strumentato successivamente la partitura per evitare – almeno così si disse – che altri lo facesse al posto suo. Quel che è certo comunque è che ne proibì l’esecuzione in questa forma per la durata della sua vita. Una prima osservazione riguarda il fatto che nell’occasione Rossini mostra felicemente intatto il suo sovrano magistero nella strumentazione malgrado il quarantennale silenzio ostinatamente osservato, seppure vissuto con occhi aperti e sensi integri. Una seconda constatazione riguarda il nuovo significato complessivo che la Messa viene ad assumere inevitabilmente nella sua declinazione sinfonica: la grande composizione riacquista i caratteri tipici di un’opera dell’Ottocento, sia pure fra le più alte del catalogo rossiniano, ma perde la forza anticipatrice, scabra ed essenziale, della versione coi pianoforti. C’è poi da spiegare la oscura ragione per cui Rossini strumenti per grande orchestra la Petite messe in tutte le sue parti ad eccezione del Prélude religieux, che, originariamente affidato al primo pianoforte, viene semplicemente trasferito all’organo, con ogni evidenza un grande strumento da cattedrale. Poiché quest’ultima condizione è assai difficile da realizzarsi ne deriva spesso, inevitabilmente, un percepibile squilibrio esecutivo. Nelle pagine che seguono, Alberto Zedda fa un’acuta analisi del problema e ne propone una convincente soluzione: è appunto quella che caratterizzerà la prossima esecuzione pesarese della Messa.

Resta infine un ultimo piccolo enigma da chiarire: quello della celebre dedica conclusiva della composizione, quando Rossini rivolgendosi al Buon Dio scrive: «Io ero nato per l’opera buffa, tu lo sai bene: un po’ di mestiere, un po’ di sentimento, questo è tutto». Presa alla lettera la frase, coerente col tono leggero e colloquiale di tutta la parte precedente della dedica, suona come una manifestazione di sottomessa modestia. Ma se si riflette al momento della vita di Rossini in cui è stata scritta, tale lettura non convince. Nel corso dei decenni di silenzio compositivo Rossini ha visto scomparire nell’oblio, una dopo l’altra, quasi tutte le sue opere, a partire da quelle serie, divenute col tempo sempre più datate di fronte ai mutati gusti del pubblico. Resta a galleggiare in pratica quasi esclusivamente Il barbiere di Siviglia, peraltro sempre presente fino ad oggi nei cartelloni teatrali con ininterrotto successo. Ora, se si tiene conto della gerarchia fra i generi che vigeva nell’Ottocento – quello sacro al primo posto, poi quello serio e quello buffo – è facile immaginare quale deve essere stata la frustrazione del compositore nel vedersi sempre più identificato con l’opera buffa. Intanto è significativo il fatto che quando decide di rompere il silenzio e rientrare in scena Rossini lo faccia con una composizione sacra, sebbene chiedendone scusa al Buon Dio con sospetta umiltà, ma è soprattutto il recupero di tutto il repertorio drammatico rossiniano, nelle sue dimensioni e nel suo valore, realizzato in questi anni dalla Renaissance a togliere ambiguità alla dedica finale della Messa, svelandone il carattere amaramente sarcastico. Si può obiettare che a tutto questo manca la prova di una esplicita dichiarazione dell’autore, sempre criptico e inafferrabile. Invece no: la prova c’è ed è contenuta in un piccolo brano per pianoforte del IX volume dei Péchés de vieillesse, databile a metà degli anni ’60, dal titolo Marche et réminescences pour mon dernier voyage, in La bemolle minore, poco noto e poco eseguito. Si tratta di una ironica marcia funebre, immaginata per se stesso, in cui Rossini sembra fare il bilancio della sua carriera di autore teatrale attraverso otto nostalgiche citazioni di proprie opere, inserite come fantasmatici lacerti musicali fra le note della marcia stessa. Si tratta nell’ordine di Tancredi, La Cenerentola, La donna del lago, Semiramide, Le Comte Ory, Guillaume Tell, Otello e Il barbiere di Siviglia. È inevitabile chiedersi per quali ragioni Rossini abbia selezionato proprio quegli otto titoli sui trentanove del suo catalogo. Nessuno, è ovvio, può rispondere con certezza (e forse occorrerebbe l’aiuto di uno psicanalista), ma qualche considerazione fondata si può fare. Cominciamo da Tancredi. È un’opera del 1813, e rappresenta il primo vero grande successo di Rossini nel genere serio. Ne parlerà con entusiasmo perfino Stendhal. È probabile che essa abbia un posto particolare nel cuore dell’autore, il quale sceglie per ricordarla la celebre cavatina dei palpiti. Segue La Cenerentola, del 1817. È un’opera formalmente buffa, in realtà di mezzo carattere, in cui gli elementi tragico e comico, sinistro e magico, sono intimamente connessi ed equamente distribuiti. È l’identica situazione che si verifica nel Don Giovanni di Mozart, opera che Rossini significativamente adorava. Nel catalogo rossiniano La Cenerentola è un autentico unicum, anche in virtù dello splendido libretto. L’opera viene rievocata da qualche battuta della cavatina «Non più mesta». C’è poi La donna del lago, del 1819. Delle dieci partiture napoletane è la più caratterizzata per il suo particolare colore preromantico, assente nelle rimanenti nove, che bastano poche note a riconoscere. Un’opera diversa da tutte le altre, che l’autore rievoca attraverso la fanfara del finale primo. Seguono le citazioni, scontate, delle due produzioni più ‘importanti’ del Pesarese, autentiche colonne della sua carriera, per splendore e dimensioni: Semiramide (1823) e Guillaume Tell (1829): entrambe vengono citate per mezzo di alcuni richiami alle rispettive celebri sinfonie. Tra le due troviamo inserito Le Comte Ory, affascinante capolavoro del 1828, una commedia di suprema bellezza e malinconia, benché si tratti di una delle opere meno popolari di Rossini: è importante che lui la includa fra le sue creazioni maggiori. Il brano prescelto è l’ambiguo coro delle false suore «Noble châtelaine» del secondo atto. Restano Otello e Il barbiere di Siviglia, entrambe del 1816, citate fuori dall’ordine cronologico, forse per utilizzare le parole dei rispettivi libretti. Difatti a rappresentare Otello non è la Canzone del salice, come ci si poteva aspettare, ma il canto del gondoliero, che dietro le quinte recita i versi danteschi «Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria», palesemente adatti a descrivere lo stato d’animo del compositore. Alla fine viene – alla buon’ora – Il barbiere, ricordato frettolosamente, di striscio e quasi con stizza: ai tanti motivi celeberrimi, Rossini preferisce l’incipit del quintetto «Buonasera, mio signore», forse anche perché ben utilizzabile come conclusione e congedo della composizione. Allora, tirando le somme: delle otto opere prescelte dal Maestro pesarese per riassumere la sua parabola creativa, ben cinque appartengono al genere drammatico, due sono di mezzo carattere e solo una è definibile (sebbene anch’essa con qualche riserva) come buffa. Che altro aggiungere? Il messaggio che Rossini ci trasmette in questo suo autentico piccolo testamento musicale è chiarissimo, ed è il rifiuto della intollerabile etichetta di maestro esclusivo dell’opera buffa. L’amabile e ironico dialogo col Padreterno che precede e segue la Petite messe solennelle ha una goccia di assenzio sulla coda. Gianfranco MariottiSovrintendente

 

 

 
 
 

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