L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Maria Mudryak e Vladimir Stoyanov

Crepuscolo inesorabile

 di Luigi Raso

Un'atmosfera di dissoluzione pervade la nuova produzione della Traviata al Teatro di San Carlo con la regia di Lorenzo Amato e la direzione crepuscolare di Daniel Oren. Già nell'anteprima del 25 febbraio si apprezzano le prove soprattutto di Maria Mudryak,, Violetta, e Vladimir Stoyanov, Germont.

NAPOLI, 25 febbraio 2018 - Su un fondale trasparente scivola per l’intera durata dello spettacolo una pioggia silenziosa e costante. Rappresenta, nelle intenzioni del regista Lorenzo Amato - che firma questa nuova produzione del capolavoro verdiano al San Carlo - il lento e inesorabile scorrere del tempo, lo straniamento di Violetta, l’offuscamento della sua vista a causa del progredire del mal sottile che la divora. Sullo sfondo, una Parigi e la campagna dei suoi dintorni dai contorni evanescenti, sfocati. La sabbia della clessidra di Violetta inesorabilmente precipita verso il basso, come la pioggia.

Il tempo in Verdi spesso corre via veloce, troppo velocemente; nella Traviata, in quel capolavoro che è l’atto III di Luisa Miller, nel Trovatore, in Ernani (l’elenco potrebbe continuare) lascia un senso di impotenza, la convinzione di non essere riusciti a evitare/fare qualcosa. C’è sempre qualcuno che arriva troppo tardi, a tempo ormai scaduto.

Uno spettacolo improntato, dunque, a un ineluttabile panta rhei, a un senso della fine presente sin dall’inizio: durante il preludio si allude alla morte di Violetta, distesa su un tavolo, ammantata con i suoi abiti da demi-mondaine, circondata da uomini che si coprono con ombrelli.

La festa inizia: Violetta si getta a godere le sue ultime fugaci gioie d’amore. Un’atmosfera di dissoluzione pervade lo spettacolo, con venature lugubri, come, ad esempio, il pesante drappeggio dipinto che incornicia la scena della festa a casa di Flora. La regia, infatti, sceglie di esaltare la tinta crepuscolare dell’opera e sparge odore di fiori appassiti anche sulla festa iniziale; una visione coerente con lo spirito del dramma: in effetti nella Traviata anche i momenti festivi e di convivialità hanno ben poca ilarità, così come il celeberrimo brindisi, un valzer, lontano (ma non troppo) parente di quelli tutta finis Austriae degli Strauss. Il senso della fine racchiuso in tempo ternario. In linea con questa visione anche la festa nella casa di Violetta ci presenta degli ospiti che a tratti diventano presenze inquietanti per la stessa padrona di casa.

Lo stadio estremo della malattia della protagonista è scolpito visivamente con una trovata registica dall’effetto straziante e straniante: all’inizio del terzo atto, mentre Annina riposa sul divano, Violetta entra in scena su una sedia a rotelle ottocentesca e dalla quale a fatica si rialza. Appare, però, poco aderente al contesto sociale dell’opera l’accanimento di Alfredo su Violetta nel finale dell’atto II: prima la getta violentemente a terra e poi la umilia ripetutamente lanciandole e percuotendola con banconote con veemenza eccessiva, tanto che la scena sembra più consona all’atto III di Otello (“A terra! E piangi!”) piuttosto che a alla Traviata.

Coerenti con la visione lugubre e decadente dell’opera sono le scene prive di orpelli di Ezio Frigerio e i costumi bellissimi, curati nei minimi particolari di Franca Squarciapino. La parabola di Violetta è narrata producendo nello spettatore straniamento e compassione in ambienti che ricreano, su tele dipinte a mano nei laboratori di scenografia del San Carlo, gli interni aristocratici della Parigi del Secondo Impero, la campagna della villa di Violetta, austeri saloni impregnati di perbenismo della casa di Flora, per poi lasciare spazio, alla fine di tutto, alla desolazione e alla povertà dell’ultimo atto.

Uno spettacolo, nella sua unitarietà, di grande suggestione visiva, nel quale ben si inseriscono le coreografie di Giancarlo Stiscia che si giovano del Matador d’eccezione di Giuseppe Picone.

Complementare e speculare alla parte visiva dello spettacolo è la direzione di Daniel Oren: una lettura crepuscolare, languida e pessimistica. La dissoluzione finale di Violetta e del suo mondo di affetti è palpabile sin dalle prime note del preludio, nella festa parigina del primo atto, nell’allucinata e dostoevskijana partita a carte a casa di Flora e nel cinereo accompagnamento di “Prendi, quest'è l'immagine de' miei passati giorni”; Oren opta per tempi indugianti che consentono agli interpreti di esprimersi alleggerendo, sfumando, fraseggiando con gusto. Il sostegno orchestrale del canto, come accade sempre quando sul podio c’è il maestro israeliano, è tenue, mai sovrabbondante; l’orchestra respira con i cantanti e i preludi sono gouaches di struggente malinconia, quello all’atto III una discesa nell’abisso della sofferenza.

Purtroppo esiste una tradizione che stenta a diventare anacronistica: dispiace per i tagli dei “da capo” delle arie e delle cabalette di Violetta e Alfredo e, a maggior ragione, dell’intera cabaletta (“No, non udrai rimproveri”) che dovrebbe seguire “Di Provenza il mare, il suol”.

Corretto e preciso e dal suono compatto il coro diretto da Marco Faelli.

Maria Mudryak è una Violetta scenicamente credibile: giovane (è pressappoco coetanea di Marie Duplessis all’epoca in cui fu conosciuta da Alexandre Dumas figlio), figura avvenente, sguardo dal fascino magnetico. Il giovane soprano kazako supera egregiamente le insidie delle “tre voci” necessarie per Traviata: ha buon volume, timbro seducente, buona tecnica vocale, ottima proiezione. Non inciampa nelle colorature del primo atto, ha la pienezza e lo spessore lirico per il secondo; la voce non accusa sofferenza, salvo che nel registro basso, nei momenti più drammatici del terzo. Ciò che a tratti latita è un’articolata interpretazione di Violetta: troppo poco puttana nel primo atto, non troppo innamorata e vibrante nel secondo, poco dannata nel terzo. Sicuramente la maturazione artistica e personale le consentiranno di delineare una figura più sfaccettata, ma che, comunque, al momento si attesta a un livello ragguardevole.

Non convince molto l’Alfredo di Vincenzo Costanzo, dotato di voce dall’interessante timbro brunito, abbastanza ampia, ma che denota problemi nel passaggio di registro e negli acuti, troppo spesso “indietro” e privi di adeguato volume. L’interpretazione scenica è convincente, così come la passionalità dell’interpretazione.

Vladimir Stoyanov è un Giorgio Germont aristocratico e signorile scenicamente e vocalmente. Bel timbro, linea di canto misurata, perfetto controllo del fiato e della proiezione gli consentono di delineare un Germont tanto perbenista quanto poi umano; la sua aria “Di Provenza il mare, il suol” è sentita, cesellata, quasi intimistica nel suo canto a fior di labbra nella ripresa “Ah! il tuo vecchio genitor  tu non sai quanto soffrì!”. Un soffio di belcanto donizettiano applicato al repertorio verdiano. Il pubblico lo apprezza tributandogli lunghi e convinti applausi, condivisi anche dal direttore d’orchestra.

Ben inserite nello spettacolo le voci di Giuseppina Bridelli (Flora), l’Annina di Michela Petrino, così come Orlando Polidoro (Gastone), Roberto Accurso (Barone Douphol), Nicola Ebau ( Marchese D’Obigny), Francesco Musinu (dottor Grenvil).

Il pubblico della prova generale, (finalmente) numeroso, decreta un calorosissimo successo per tutti, con punte di vivo apprezzamento per Daniel Oren, da sempre di casa e amato a Napoli, per Maria Mudryak e per Vladimir Stoyanov.

Una breve e conclusiva digressione. Da qualche anno il San Carlo devolve parte dell’incasso di alcune prove generali aperte al pubblico a Enti o Associazioni benefiche locali, nazionali ed internazionali,  per sostenerne le attività. L’incasso di questa prova generale sarà destinato al Museo delle Arti Sanitarie, istituito da pochi anni a Napoli, che ha in gestione e apre al pubblico uno dei tesori di Napoli (e non solo), la settecentesca Farmacia storica degli Incurabili.

Si consiglia a chiunque capiti a Napoli di visitarla, perché l’effetto visivo è paragonabile a quello che si prova nell’ammirare la sala illuminata del San Carlo.

Il prossimo titolo in cartellone sarà uno dei più interessanti dell’intera stagione: Mosè in Egitto di Rossini, scritto proprio per il San Carlo (1818) durante il suo lungo e fecondo periodo napoletano (1815 – 1822), un’opera che costituisce l’omaggio del Massimo napoletano alle celebrazioni per i 150 anni dalla morte del grande pesarese.

foto Luciano Romano


 

 

 
 
 

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