“Lo spazio” serve proprio a tale scopo, poiché la funzione fantastica non è che questo: riserva infinita d’eternità contro il tempo (…. )Lo spazio è nostro amico, la nostra atmosfera spirituale, mentre invece il tempo corrode.
(Gilbert Durand, Les structures anthropologiques de l’imaginaire)
Il fascino profondo e anche un po’ misterioso (estetico, religioso, onirico, mitico) che emana dalla straordinaria azione pittorica di Gabriele Amadori evocata, accesa e stimolata da una qualche partitura sonora, nasce e risiede a mio parere da e in una singolare e vigorosa consapevolezza antropologica. La sapienza e la potenza rituale della sua “celebrazione” (ma potremmo benissimo dire della sua infatuazione o della sua possessione) hanno come epicentro lo scontro (e non certo l’incontro), il conflitto fatale e di-sperato tra l’eufemismo spaziale creato e ricreato infaticabilmente dalla fantasia e l’annientamento della disgregazione operato dal tempo. Si tratta di un nucleo simbolico di memorie remote, ma piuttosto ancestrali, sul quale Amadori opera una elaborazione, anzi una interpretazione perfettamente moderna e ineccepibilmente laica.
Un passaggio del grande antropologo Gilbert Durand da Les structures anthropologiques de l’imaginaire sembra scritto ad hoc per l’azione di Amadori : « La rappresentazione nella sua totalità si erge contro l’annientamento portato dal tempo, specialmente la rappresentazione in tutta la sua purezza di anti-destino: la funzione fantastica rispetto alla quale la memoria non è che un incidente. La vocazione dello spirito può essere soltanto di insubordinazione all’esistenza e alla morte». Prima di iniziare l’azione scenica Gabriele Amadori traccia sulla grande tela le coordinate spazio-temporali: qui il consolidarsi delle strutturazioni e la crescente saturazione cromatica dello spazio comprimono e imprigionano il tempo nei suoi infiniti interstizi; in questa battaglia, in questa lotta (per gli attori alla lettera corpo-a-corpo), tra l’erosione entropica della astrazione temporale e il consolidarsi nell’ispessimento materico di uno spazio euclideo, il rito collettivo (Amadori, i musicisti, ma da subito anche il pubblico) conferma simbolicamente proprio dentro la spazialità la patria della funzione fantastica; l’origine della straordinaria e utopica eversione contro il destino della caducità, della perdita e della morte.
«Proprio per questa ragione profonda – scrive Durand commentando Bergson – l’immaginazione umana è modellata prima dallo sviluppo del vedere, poi dall’udire e infine dal linguaggio: tutti mezzi di apprendimento e di assimilazione “a distanza”. Appunto in questa riduzione “eufemizzante” della distanza e del distacco sono contenute le qualità dello spazio». Non è, direbbe Piaget, lo spazio immediatamente percettivo; ma piuttosto quello rappresentativo che si apre all’apparire della funzione simbolica, strettamente legato all’azione poiché “la rappresentazione spaziale è un’azione interiorizzata”.
La formula che abbiamo spesso utilizzato a proposito di Amadori “vedere la musica e ascoltare la pittura” evidenzia proprio la specificità di uno spazio densamente simbolico di rappresentazione (teatrale, rituale, persino liturgica, sovente onirica e visionaria) dentro il quale anche la temporalità musicale (tempi, ritmi, scansioni) si metamorfizza aprendosi, strutturandosi, assestandosi in ambiti simbolici; in nuclei di resistenza di una durata che affronta con determinazione la minaccia del silenzio e del nulla di prima e di dopo.
D’altra parte l’azione di Amadori non fa che sottolineare la nostra tendenza naturale a trasformare percezioni e sensazioni di ogni tipo in temi visivi e in immagini: a tal punto che proprio la terminologia delle arti musicali è essa stessa “visiva”: volume, misura, crescendo, simmetria, etc.
La mediazione rituale ovvero in questo caso il conduttore energetico della contrapposizione tra “l’amicizia” eufemizzante dello spazio e l’ostilità dispersiva del tempo non è costituita dalla materialità agita dei colori, degli impasti, delle campiture, delle pennellate, delle sgocciolature, degli spruzzi; ma direttamente e costantemente dalla corporeità integralmente impegnata dell’attore che, sulla scena, spalanca, costruisce, percorre distanze traducendo in rappresentazione simbolica la fuga del tempo che lambisce e dilava rischiosamente anche i confini esterni del recinto sacro del rito di luce.
Il fascino esercitato dalla gestualità febbrile e controllata dell’artista nella progressiva strutturazione cromatica di uno spazio “vuoto” sta proprio nell’accumularsi visivo di una energia simbolica generosa e benefica, capace di incentivare la speranza di una possibile insubordinazione della facoltà immaginaria contro l’insostenibile irreversibilità del tempo.
Milano, novembre 2007
Pietro Bellasi