L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Follie, follie...

di Giuseppe Guggino

Il Teatro Massimo di Palermo archivia la stagione d’opera 2013 apertasi sotto i migliori auspici con le prime due giornate del Ring wagneriano varando un’edizione del capolavoro verdiano dimenticabile sotto ogni punto di vista.

PALERMO, 26 novembre 2013 -Nella storia dell’opera esistono taluni capolavori così perfetti, così intoccabili, che potrebbero tranquillamente rifulgere di luce propria, riuscendo a suscitare l’entusiasmo del pubblico di qualsiasi livello di alfabetizzazione musicale quasi indipendentemente dal valore musicale di una recita; sono i cosiddetti titoli di “repertorio”, cui certamente appartiene La traviata, cui i teatri sovente ricorrono come riempitivo di stagione impiegando vecchie produzioni collaudate, impegnando le masse per pochissime prove in virtù della frequentazione abituale e scritturando solisti non di primissimo piano, senza per questo pregiudicare l’esito al botteghino e con buone garanzie di applausi scroscianti ad ogni calata di sipario. Con titoli di tradizione, in effetti, è davvero difficile passare una brutta serata a teatro; ad esempio Il barbiere di Siviglia anche nelle mani del più letargico dei direttori, è impossibile che non riesca a comunicare la sua travolgente e caleidoscopica vorticosità ritmica, al pari di come è francamente difficile allestire una Traviata che, anziché commuovere, lasci il pubblico completamente impassibile. Ebbene, con le recite in scena a Palermo in questi giorni, il Massimo potrà rivendicare il singolare primato!

Dell’allestimento si potrebbe anche non parlare, se non portasse la firma ingombrante e prestigiosa di quell’enfant méchant del teatro francese quale è certamente Laurent Pelly, creatore di spettacoli a dir poco geniali come Platée di Rameau o di letture demenziali, caustiche eppure straordinariamente coerenti di tante operette offenbachiane del Secondo Impero; cosicché si stenterebbe a ravvisare la mano di Pelly in un allestimento tanto plumbeo, sinistro, non rischiarato da nessuna idea, mai eccessivo se non in qualche volgarità al primo atto e costellato di svarioni registici vari - uno su tutti, l’inizio del secondo atto in cui Alfredo canta “Lunge da lei” con “lei” distesa su un telo da picnic a meno di due metri di distanza. Lo spettacolo, con scena fissa costituita da parallelepipedi color antracite variamente disposti, inizia con il funerale di Violetta (e un accompagnamento di ottoni nel preludio più evocativo della banda al cimitero di Caltabellotta, anziché Montmartre) e si snoda in due tempi (anziché nei consueti tre atti della scansione verdiana) in chiave analettica, concludendosi con la fuga dei presenti alla morte di Violetta: più che una scelta drammaturgica di rottura, un modo per giustificare la consueta omissione degli ultimi quattro versi in omaggio alla diva di turno. Ciò che pare davvero imperdonabile non è tanto lo spettacolo in sé, giacché anche agli uomini di teatro tra i più scafati può capitare uno spettacolo non riuscito, quanto invece la scelta quella sì inspiegabile di noleggiarlo a fronte di esiti di pubblico e critica negativi sia al festival di Santa Fe’ (dove lo spettacolo nacque, con la presenza di Madame Dessay) sia nelle varie riprese al Teatro Regio di Torino e in tournée in Giappone.

La parte musicale, purtroppo, non riscatta la serata, anzi: né la direzione greve e routinière (ancorché corretta) del giovane Matteo Beltrami né il cast completamente inadeguato consentono il galleggiamento sul livello quantomeno della mediocrità.

Il migliore in campo tra i cantanti è Vincenzo Taormina, forte di una voce corposa almeno nei centri che però cerca pervicacemente una soluzione tecnica poco ortodossa nello schiarire la voce nella zona acuta con un risultato quasi tenorile, piuttosto comico e certamente fuori luogo per l’autorevolezza che Germont padre deve incarnare. Germont figlio è un ritorno, giacché Stefano Secco (con voce ben più fresca, però) aveva già sostenuto il ruolo al Massimo nell’allestimento del 2006; purtroppo il confronto con sé stesso è tremendamente impietoso poiché, pur non dissipando il bel timbro naturale e madreperlaceo di cui era ed è dotato, oggi non riesce a risolvere alcuna frase che non risulti difficoltosa se non proprio spezzata; saperlo avvezzo a ruoli tenorili anche verdiani di ben altro impegno vocale rispetto ad Alfredo lascia supporre (o, meglio, sperare) che lo si sia ascoltato in una serata particolarmente infelice. Infelicità che, parimenti, speriamo essere occasionale anche per Desirée Rancatore, che è sembrata pagare troppo il cimento con un ruolo per cui la sua vocalità è assolutamente inadeguata; l’inspessimento del registro centrale necessario per affrontare un ruolo dal baricentro decisamente basso la porta inevitabilmente a un centro vocale di scarsa proiezione, gutturale, e a un’insopportabile risoluzione con portamenti dal basso di tutto il registro acuto e l’accidentale comparsa di fissità nei suoni, nonché la necessità di prese di fiato frequentissime e a dir poco avventurose; e nel canto, in Verdi più che mai, prendere fiato nel bel mezzo di una parola magari per cantare al finale primo “il mio pen-(Mi bemolle lungo, fiato)-sier” è peccato, mortale. A parziale scusante può certamente addursi l’onere psicologico di doversi misurare con il ruolo in una sala che ha visto transitare le più prestigiose Violette del momento dalla Bellincioni alla Caniglia, dalla Olivero alla Gencer negli anni ‘50, fino al doppio cimento della Scotto (nel ’67 e nel ’72) e alle recite di poco più di un anno fa, con un’indimenticabile e commovente Mariella Devia. Anzi, proprio in virtù della recente memoria di quelle recite della stagione 2012 che, oltre alla più grande Violetta oggi in circolazione, schieravano uno splendido baritono come Simone Piazzola, un solidissimo direttore come Carlo Rizzi, nonché il famoso allestimento dello specchio di Svoboda (tra l’altro molto coerente con l’intento verdiano di denuncia alla società perbenista così impietosamente ritratta, appunto rispecchiata), ha senso interrogarsi sulle ragioni di un'altra Traviata di esito assolutamente imparagonabile proprio nella stagione successiva. Stranezze imperscrutabili, capricci, o meglio, “follìe”…

La traviata

Melodramma in tre atti
Libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Allestimento del Teatro Regio di Torino in coproduzione col Santa Fe Opera Festival
Direttore Matteo Beltrami
Regia e costumi Laurent Pelly
Regia ripresa da Anna Maria Bruzzese
Scene Chantal Thomas
Coreografia ripresa da Giancarlo Stiscia
Luci Amerigo Anfossi

Cast
Violetta Valéry Desirée Rancatore
Flora Bervoix Patrizia Gentile
Annina Valeria Tornatore
Alfredo Germont Stefano Secco
Giorgio Germont Vincenzo Taormina
Gastone Bruno Lazzaretti
Il barone Douphol Giovanni Bellavia
Il marchese d'Obigny Italo Proferisce
Il dottor Grenvil Manrico Signorini
Giuseppe Marco Palmeri
Un domestico / Un commissionario Riccardo Schirò
Primi ballerini Monica Piazza, Giuseppe Bonanno
Orchestra, Coro e Corpo di ballo del Teatro Massimo
Maestro del Coro Piero Monti

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