L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il fascino indiscreto del repertorio

di Antonio G. Ruggeri

Torna alla Scala Il trovatore, l'opera simbolo del melodramma romantico, capace, con le sue difficoltà e le appassionate aspettative dei molomani, di far tremare le vene ai polsi a ogni interprete e direzione artistica. In questa coraggiosa ripresa milanese, senza ambizioni di storicità, si è imposta la Leonora di Maria Agresta, astro sempre più luminoso dell'attuale firmamento sopranile. Con lei l'esperienza (ma anche un pizzico di stanchezza) di Marcelo Alvarez come Manrico. Meno efficaci Franco Vassallo ed Ekaterina Semenchuk, Conte di Luna e Azucena. Sul podio Daniele Rustioni coniuga integralità filologica e puntature di tradizione. L'allestimento è quello noto, esteticamente suggestivo, ma a tratti troppo illustrativo, di Hugo De Ana.

MILANO, 25 febbraio 2014 - Ci sono voluti quattordici anni affinché Il trovatore, considerata l’opera per antonomasia, facesse ritorno sulle scene del Piermarini. Onore alla Scala quindi che, in un normale avvicendamento di grandi titoli all’interno di un cartellone ricco qual è quello del principale teatro milanese, prosegue la sua stagione decisamente interessante e ben articolata tra proposte desuete e repertorio tradizionale, più facilmente oggetto di critiche, ma anche di richiamo popolare indubbiamente maggiore per un teatro che non si traformi in un luogo d'élite.

È sempre stato difficile allestire ad altissimi livelli un’opera come Il trovatore e se questa produzione non sarà ricordata negli annali come edizione di riferimento, né ne aveva la rpetesa, la Scala ha centrato il risultato, mettendo in campo risorse non tutte eccelse, ma di certo (per lo meno sulla carta) fra le migliori disponibili oggi. Difficile infatti, ricordare molte edizioni di quest'opera, in cui almeno uno dei quattro protagonisti non si trovasse in difficoltà nel venire a patti con le difficoltà vocali, stilistiche e interpretative della propria parte.

In questa occasione i panni del “mitico” Manrico, assurto quasi simbolo della vocalità verdiana romantica, erano vestiti da Marcelo Alvarez che continua la sua stretta collaborazione con la Fondazione milanese e ci permette di riascoltarlo in un ruolo debuttato proprio su un palcoscenico italiano (il Regio di Parma nel 2006) e poi affrontato in molteplici occasioni in Italia e sulle maggiori scene internazionali. In questa recita ci ha amareggiato però constatare una prestazione sottotono del tenore, che non ha saputo dare continuità di risultati a una lettura nel complesso di indubbia personalità, ma tuttavia solo a tratti coinvolgente ed emozionante. Alvarez si accosta al Trovatore giustamente lasciando da parte il lato eroico del personaggio, risolvendolo con la voce autenticamente lirica che gli appartiene, in linea con una tradizione di grandi interpreti che da Bjorling è giunta fino a Pavarotti. Non forza e non tradisce così mai il suo strumento dolce, chiaro, luminoso, ideale per certi ruoli di amoroso, che insieme a un registro acuto lucente e una tecnica preverista sono stati il biglietto da visita della prima parte della sua carriera (al Piermarini ha debuttato infatti nel 1998 come Carlo nella Linda di Chamounix, e il suo repertorio rpevedeva allora L'elisir d’amore, Lucia di Lammermoor, La favorita, La traviata). Ed è un peccato che per sobbarcarsi negli ultimi anni l’onere di personaggi dalla vocalità esigente e logorante abbia perso spavalderia in zona acuta, spontaneità nel canto e controllo dell’emissione, non sempre a fuoco e a tratti nasaleggiante. Messe da parte, però, queste valutazioni oggettivamente difficili da ridimensionare, non gli si può negare, nonostante la percepibile stanchezza, una resa in crescendo nel corso della recita. Il personaggio di Manrico fortunatamente non si materializza solo nella "Pira", che, se pur cantata con correttezza e senza incidenti (ma anche abbassata di mezzo tono), non ha suscitato nel pubblico l’impeto e la tensione che di solito ci si aspetterebbe. I momenti meno riusciti sono stati tuttavia proprio le pagine liriche di ben altro spessore espressivo previste dalla partitura: in palese difficoltà in “Mal reggendo”, nonostante l’appassionato trasporto che nella pratica però non approda a un risultato valido, affaticato nel sostenere le ampie arcate di “Ah sì ben mio", carenti di suono morbido e legato. Soltanto nel IV Atto Alvarez è riuscito a riscattarsi pienamente in un’interpretazione trascinante, mettendo a frutto la gamma di mutevoli sentimenti che agitano l’anima del protagonista in tutte le loro sfaccettature possibili: da un dolcissimo "Madre non dormi”, con la voce piegata in emozionanti mezzevoci, fino a un “Ha quest'infame l'amor venduto” cantato eseguendo con una sorprendente varietà di sfumature tutti i segni verdiani.

C’è da riscontrare così che se pur in un teatro amico in cui gode della stima e dei favori del pubblico, il mattatore indiscusso di questa rappresentazione, anche in termini di successo personale, non è stato il tenore eponimo, bensì il soprano. Dopo lo smagliante successo come Leonora dell’Oberto, conte di San Bonifacio nella precedente stagione scaligera, era attesa infatti con particolare riguardo Maria Agresta, voce tra le più ricercate e apprezzate, che in questa sua prima fase di carriera ha fatto dell'800 italiano il suo repertorio d’elezione e nel panorama delle eroine verdiane finora affrontate, insieme all’ammirevole Elena nei Vespri siciliani e alle pregevoli Amelia Boccanegra e Desdemona, dà vita con questa Leonora del Trovatore a una delle sue migliori interpretazioni. La vocalità fascinosamente lirica, calda, lucente e di immacolata purezza, che ben si addice alla nobiltà del personaggio, restituisce appieno le pagine a sfondo elegiaco e sognante: grazie a un perfetto dominio del fiato, l’aria d’entrata “Tacea la notte placida” è cantata con emozionante abbandono, giusto afflato e notevoli dinamiche, senza che la linea vocale ne esca in alcun modo compromessa. Pianissimi eterei, legato d’alta scuola e accento trasognato siglano invece una notevole esecuzione di “D’amor su l’ali rosee” del IV atto, dove, in sintonia con i tempi rallentati del direttore, si crea la giusta atmosfera di raffinata e incantata levità, premiata dal pubblico con un’ovazione prolungata. Convincente anche dal punto di vista interpretativo e per l'introspezione psicologica, sorprende lo slancio e la forza d’animo che il suo timbro nobile improvvisamente irradia nelle impervie cabalette eseguite integralmente con i da capo. Qui il suo canto passionale e spavaldo testimonia anche una notevole sicurezza nel dominio di trilli, intervalli e canto d’agilità. Concluso il terzetto del primo atto con un Re bemolle sovracuto di tradizione radioso, nitido e a fuoco, nel finale del secondo atto la scrittura puntata di “E deggio e posso crederlo” è ben controllata nonostante l’impeto di febbrile eccitazione. Appassionata e vibrante nel duetto col Conte, nel drammatico finale nel carcere la voce lentamente si affievolisce per sottolineare l’effetto del veleno che la porterà a morte e mediante una precisa attenzione ai colori, all’abbandono e al gioco degli accenti, l’effetto ottenuto è notevolissimo. Una prestazione davvero maiuscola capace di sopportare ogni paragone con le interpreti del passato e che oggi può temere ben poche rivali.

Nella stravagante composizione dei cast Ekaterina Semenchuk era Azucena al posto della più meritevole Luciana D’Intino (questioni di altri impegni o un azzardo della direzione artistica?) che interpretava il ruolo della zingara sulle tavole del Piermarini nel secondo cast. Il mezzosoprano russo già presente come Amneris nella recente Aida ha dimostrato nuovamente di essere una valida professionista senza avere però quel coinvolgimento emotivo che un personaggio viscerale, psicologicamente complesso e vero motore della vicenda come quello di Azucena dovrebbe avere. Una prestazione, quindi, carente prima di tutto dal punto di vista interpretativo - semplificato in una visione della zingara allucinata e assente dalla realtà circostante - nonché penalizzata da un’emissione vocale decisamente disordinata nell’ottava bassa, che trovava gradevolezza e limpidezza solo nella facile ascesa all’ottava superiore (particolarmente riuscite infatti le puntature sul do acuto di "tu la spremi dal mio cor" e sul sib in conclusione d’opera). Parte così quasi in sordina “Stridea la vampa”, mentre risulta scomposto nell’accento “Condotta ell'era in ceppi” e la stretta “Deh rallentate o barbari” sembra mancare di quella brillantezza nel fraseggio necessaria per elettrizzare come dovrebbe il pubblico in sala. La voce di colore mediosopranile non scurissimo trova solo in extremis, nella scena della prigione, una buona linea e un’efficace comunicativa. Francamente troppo poco per delineare tutte le sfumature un personaggio così amato da Verdi come quello della zingara, a cui è stata sottratta quell’incisività che dovrebbe calamitare l’attenzione dello spettatore dal primo all’ultimo momento.

Subentra come Conte di Luna al previsto Leo Nucci (che annuncia l’abbandono del ruolo non più sentito idoneo alle sue corde) Franco Vassallo. Affermato baritono milanese, considerato in Verdi già una sicurezza, tratteggia un personaggio monolitico, tutto d’un pezzo, vendicativo e protervo, ingessato nella sua uniforme come nel suo ruolo. Ne emerge così un’interpretazione vocale (e scenica) decisamente poco consona a un nobile signore, vicina a cliché alquanto superati e con un fraseggio d’impostazione assai generica. Voce di bel colore autenticamente baritonale, tende a scurire artificiosamente il timbro e a forzare l’emissione, poco fluida e non completamente libera, per meglio rendere l’impetuoso furore della sua scelta interpretativa . In questo senso il canto perentorio non riesce ad aprirsi nemmeno nel momento lirico del “Balen del suo sorriso” che, se pur cantato correttamente, manca della necessaria raffinatezza. Va da sé che la mancanza di colori e sfumature non permette di esimerci dall’avanzare riserve in merito a una prestazione incentrata solo alla pura muscolarità vocale.

Il cast è completato dalle presenze del Ferrando di Kwangchul Youn, incisvo nell’articolazione del canto, ma con poco mordente e agilità nello sgranare le quartine di semicrome del racconto iniziale, della Ines di Maria Castellini e dal Ruiz di Massimiliano Chiarolla.

Conduce con mano sicura l’orchestra del teatro alla Scala il giovane maestro milanese Daniele Rustioni, non nuovo al pubblico scaligero e ormai lanciato a livello internazionale fra le migliori bacchette della sua generazione. Pur non trovando particolari soluzioni, finezze e spunti innovativi nella lettura tutto sommato molto tradizional della fiammeggiante partitura verdiana, la sua direzione va lodata per la particolare attenzione con cui esalta le pagine più liriche, con particolare riguardo al “respiro” dei cantanti, senza venir meno però al necessario impeto che caratterizza i momenti più drammatici e di colore guerresco. Sensibile alle esigenze del palcoscenico, ha regolato sempre lo spessore dell’orchestra alle singole possibilità degli interpreti, con il risultato di un suono limpido, esemplare per compattezza e precisione e di grande efficacia narrativa; anche per quanto concerne la scelta dei tempi si è distinto per un grande equilibrio staccando ritmi decisi che, pur evidenziando tutte le agogiche, mai hanno interrotto il flusso drammatico mantenendo coesione tra tutte le componenti musicali, segno di una concertazione ben riuscita.Non apportando alcun taglio alla partitura, Rustioni è coerente anche sotto il profilo stilistico e, pur non disdegnano le puntature di tradizione che infiammano il pubblico, ha ripristinato nel solco della filologia tutte le cabalette con le ripetizioni (a eccezione del da capo della “Pira”), che in realtà hanno un loro ben preciso significato nel contesto drammaturgico. Una direzione quindi sicuramente positiva, in cui sensibilità musicale e prova di intelligenza hanno tutto sommato garantito un risultato di efficienza complessiva e tenuta più che discreta.

Lo spettacolo vede il ritorno sulle tavole del Piermarini di Hugo de Ana, uno dei registi più talentuosi e immaginifici del teatro lirico, assente dalla Scala, che gli dovrebbe ben altra considerazione, da troppo tempo. Se è pur vero che raramente una ripresa riesca meglio dell'originale, questo allestimento che inagurò la stagione verdiana del 2000, appare ancora di grande impatto drammatico: una teoria di pannelli di nuda roccia color rame brunito, che, andando ad aprirsi e spostarsi a mo’ di mura, delimitavano i vari ambienti creando così atmosfere surreali, argentee e suggestive anche grazie al gioco-luci misterioso e notturno di Marco Filibeck. Una sorta di prigione medioevale spagnoleggiante, ricca di riferimenti figurativi, dove il regista dispone plasticamente i protagonisti creando dei momento oleografici di grande mestiere e dove realismo e simbolismo convivono in una continua 
ricerca di raffigurazione armonica esteticamente ricercata, con un risultato conclusivo che finisce però più per illustrare che interpretare.

Riabilitati rispetto alla non felice accoglienza della prima il mezzosoprano, il baritono e il direttore d’orchestra, ma gli applausi più entusiastici hanno salutato alle uscite singole Marcelo Alvarez, forse più per rispetto all'artista che per l'effettiva resa, e una raggiante Maria Agresta.

 


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