Ce n'est pas la déesse
di Roberta Pedrotti
Dopo prove tormentate da indisposizioni e dissidi va in scena a Parma Les pêcheurs de perles, ultima opera del breve cartellone 2014. L'esito è infelice sotto ogni punto di vista, senza che la serata riservi alcun tipo di conforto. Il loggione però sta a guardare e perdona perfino vistosi e diffusi sbandamenti d'intonazione.
PARMA 25 marzo 2014 - Pitagora avvertì l'esigenza di dare un ordine al rapporto fra i suoni, regolandolo secondo proporzioni matematiche; nell'età moderna la polifonia e, soprattutto, l'armonia tonale, hanno reso necessario il perfezionamento e l'adozione di quel temperamento equabile (ovvero di un sistema di intonazione che rendesse equivalenti gli intervalli di tono e semitono anche in diverse tonalità) già teorizzato e via via elaborato a partire dall'antichità alessandrina. Chissà cosa avrebbe detto Bach, che alla buona intonazione dello strumento aveva dedicato una delle sue opere cembalistiche più celebri, se avesse ascoltato ancora nel 2014, sul palcoscenico del Regio di Parma, far scempio impunemente del sistema sonoro su cui si basava l'opera rappresentata, Les pêcheurs de perles, che sarà pure ambientata a Ceylon, ma è a tutti gli effetti occidentale e ottocentesca per ambito tonale. La genesi di questa produzione è stata, è vero, assai travagliata: titolo potenzialmente più interessante della brevissima stagione parmigiana, con il cast di maggior richiamo, ha visto prima perdere la protagonista, Desirée Rancatore, per un'indisposizione, quindi, il giorno stesso della generale, anche Antonino Siragusa, il tenore (ovvero il destinatario delle due pagine più celebri dell'opera), si ritira dalla produzione, dichiarando invece apertamente il suo contrasto con il direttore Patrick Fournillier. Per la prova è in scena Jesus Leon, alla prima arriverà Dmitry Korchak, mentre per Léïla è annunciata già dal 17 marzo Nino Machaidze.
Naturalmente eventuali sbavature musicali o attacchi imprecisi si possono condonare ai sostituti dell'ultima o penultima ora, ma essendo entrambi cantanti in piena carriera e non debuttanti nei rispettivi ruoli, già affrontati in teatro, non ci si può esimere da notare problemi basilari di tecnica e musicalità ben più gravi di un qualche umano errore dovuto alle poche prove. La Machaidze, che pure frequenta assiduamente il repertorio francofono e ha nella Juliette di Gounod forse il suo cavallo di battaglia, si esprime in un idioma che ha poco a che fare con quello di Bizet e dei suoi librettisti, la voce è spinta, priva di morbidezza, timida in acuto, con ascese spesso faticose e stridule, flebile nei gravi, denuncia altresì un preoccupante vibrato largo incipiente nelle frasi più liriche. I passi di coloratura, poi, sono pasticciati, impastati e poveri di suono, con più aria che note e timbro nell'emissione.
Korchak mostra vistosi sbandamenti d'intonazione (difetto, purtroppo, già riscontrato e sempre con maggior frequenza negli ultimi tempi) in “Je crois entendre encore”, soprattutto, ma parte piuttosto male già nel duetto “Au fond du temple saint” né si rinfranca nel prosieguo, fra suoni spinti e poco appoggiati e falsetti, in un canto poco sfumato, in un fraseggiare monocorde e stereotipato nell'estasi e nella passione, privo di grazia nell'emissione e nel porgere, piuttosto indifferente nell'espressione.
L'unico protagonista supertite dall'annuncio della stagione fino all'andata in scena è stato Vincenzo Taormina quale Zurga, ovvero il personaggio più complesso, compiuto e tormentato dell'intera opera. Purtroppo il baritono palermitano ha mostrato forse i peggiori difetti d'intonazione dell'intera serata, oltre a un'emissione brada e involgarita, ma di nessuna presa teatrale e limitata nella proiezione. Anche nel suo caso la dizione francese non poteva dirsi certo chiara e impeccabile e con la diffusa latitanza di musicalità e fraseggio ha contribuito a rendere quasi insostenibile un'opera breve e, per quanto non un capolavoro assoluto, d'indubbia, immediata piacevolezza.
Certo, una responsabilità non indifferente va imputata alla concertazione di Patrick Fournillier, ancor più deludente se si pensa a un madrelingua noto interprete del repertorio d'Oltralpe. L'orchestra è greve, grigia, offuscata nei timbri e nei dettagli, come un'insipida marmellata strumentale che procede inghiottendo tutto l'esotismo sognante, le atmosfere profumate e avventurose che Bizet con i suoi librettisti Carré e Cormon aveva ammanito a un pubblico ancora lontano dalla crisi di Sedan e della Comune ed entusiasticamente immerso nella grandeur imperiale. Mancano gli effetti (la tempesta del finale secondo rasenta il ridicolo, anche scenicamente), manca il lirismo, manca la precisione, con un coro – ahimé – questa volta decisamente sottotono, poco omogeneo e costretto sovente a forzare a detrimento dell'insieme e della qualità del suono.
Nemmeno la messa in scena convince. Davvero nel 2014 avevamo bisogno di una nuova messa in scena dei Pêcheurs de perles come quella propostaci da Fabio Sparvoli in coproduzione con Trieste e Modena? Meglio sarebbe stato riprendere, piuttosto, un allestimento di repertorio in luogo di queste due ore di recitazione stereotipata, da filodrammatica d'altri tempi, con alcune trovate forse pretenziose ma decisamente fuori luogo (Léïla dopo aver maledetto e percosso Zurga consegna a lui, e non a un pescatore di passaggio, la sua collana, chiamandolo teneramente “mon ami”; la presenza invadente e non sempre convincente di un corpo di ballo che dovrebbe suggerire l'aspetto fantastico ed esotico di spiriti e divinità indù, con implicazioni oniriche e perfino psicologiche nelle intenzioni). La scena è ingenua senza ammiccare all'immaginario esotico ottocentesco, ma assemblando semplicemente dei lampi davvero ingenui, il realistico filmato del mare, un cielo stellato di cartone, elementi scenografici ispirati all'oleografia dei grandi parchi divertimenti. Per la cronaca ricordiamo, con il poco significativo Nourabad del basso Luca Dall'Amico, lo scenografo Giorgio Ricchelli, la costumista Alessandra Torella, l'ideatore delle luci Jacopo Pantani e la coreografa Anna Rita Pasculli. Poi dimentichiamo questa recita e speriamo in un avvenir migliore, lasciando il teatro con il rammarico di dover constatare come il loggione parmigiano si svegli solo per Verdi e una manciata di altri titoli, mentre lasci correre con applausi distratti ma senza increspature, problemi di intonazione e resa musicale così eclatanti.