Una sposa per il Grande Fratello
di Antonio G. Ruggeri
L'opera di Rimskij Korsakov alla Scala diviene, nell'intelligentissimo e tecnicamente strabiliante allestimento di Dmitri Tcherniakov, un'affascinante e angosciante riflessione sul potere, tale e quale nella sua violenza e nella sua mistificazione ai tempi di Ivan il Terribile come oggi nella tirannia dell'immagine. Daniel Barenboim, sul podio, assicura una lettura di qualità, ben assecondato dal cast, in cui brillano Olga Peretyatko e Marina Prudenskaja, mentre le voci maschili e le vecchie glorie si fanno notare più che altro per l'incisività e la partecipazione attoriale.
MILANO, 14 marzo 2014 - Le rappresentazioni di Una sposa dello zar (Carskaja Nevesta) di Nikolaj Rimskij-Korsakov in prima assoluta al Teatro alla Scala di Milano hanno visto il ritorno sul podio del Piermarini del direttore musicale uscente Daniel Baremboim al suo primo appuntamento operistico della stagione in cui dirigerà a seguire Così fan tutte in giugno e Simon Boccanegra nella ripresa autunnale. Coprodotto con lo Staatsoper di Berlino questo spettacolo prosegue, dopo Il giocatore di Prokof'ev e il Simon Boccanegra di Verdi, la collaborazione tra il teatro milanese e quello della capitale tedesca di cui il maestro argentino è a sua volta Generalmusikdirektor dal 1992. È sicuramente iniziativa da lodare quella dei due teatri di programmare e presentare questo titolo assente inspiegabilmente dai palcoscenici europei e che meriterebbe ben più ampia conoscenza: l'ultima rappresentazione berlinese risaliva infatti al 1948, mentre in Italia La fidanzata dello zar (calco dalla traduzione in francese effettuata negli Anni Trenta) è stata allestita nel 1932 al Teatro Quirino di Roma, poi nel 1987 (intitolata giustamente Una sposa per lo zar come da traduzione letterale di Carskaja Nevesta e prassi nelle versioni ritmiche tedesche e inglesi) al Teatro dell’Opera di Roma diretta da Mstislav Rostropovich e nel 2007 al Teatro Bellini di Catania.
Nona delle quattordici opere di Rimskij-Korsakov, compositore tra i maggiori d'area slava e trait d'union tra la “scuola russa” (il Gruppo dei Cinque che aspirava alla creazione di un’opera nazionale) e il mondo musicale occidentale, Una sposa per lo Zar, composta del 1898, è sicuramente uno dei titoli più riusciti del suo catalogo, collocandosi fra La boiarda Vera Seloga e La favola dello Zar Saltan. Dopo una fase iniziale dedicata specialmente a lavori di carattere fantastico basati su antiche leggende russe (quali la Fanciulla di neve) o soggetti pastorali ancora privi della mordente satira sul potere assoluto come sarà l’ultima opera Il gallo d’oro, l’autore si orientò verso il lirismo e l’indagine psicologica dei personaggi. A dispetto quindi della drammaticità dell’azione scenica (tratta da un complicato dramma di Lev Mej, molto popolare nei teatri dell’Impero russo, tradotto in libretto da Il’ija Tijumenev) sanguinaria e cruenta, fatta di amore, tradimenti, avvelenamenti, torture e morte che qualcuno ha voluto avvicinare al verismo italiano, l'inventiva melodica, ritmica e armonica è ricca e variegata nelle sonorità che, se pur occasionalmente, rasentano l'espressionismo, sono pervase da toni intimistici e lirici. Emerge così da un lato una scrittura vocale affatto particolare, con arie e ariosi che, alternandosi a lunghi passi di conversazione sostenuti da uno strumentale scabro ed essenziale, portano l’attenzione più al canto che all’orchestra; dall'altro l’utilizzo di un nuovo linguaggio e di nuove sonorità, con uno strumentale spesso aspro e duro, lontanissimo dall'orchestrazione caleidoscopica e lussureggiante di partiture come Sadko. Certo non tutta la musica, come del resto in qualsiasi altra opera lirica, è della stessa qualità; in generale, però, la partitura è di altissimo livello, ha momenti particolarmente ispirati, soprattutto nel primo atto.
Le difficoltà musicali quindi richiedono al direttore e concertatore di serrare in unico arco narrativo un materiale eterogeneo dando il giusto bilanciamento ai pesi tra buca e palcoscenico per imprimere così coerenza sia al discorso musicale che a quello teatrale. Barenboim direttore dalla grande musicalità pur non essendo cresciuto nella tradizione slava, realizza un’interpretazione lodevole sottolineando tutta la ricchezza e la maestria dell’orchestrazione fascinosa e smagliante rimskyana. Privilegiando le aree di puro lirismo, con una studiata ricerca del “bel suono”, non manca di finezze e di una certa cura delicata quasi cameristica dei particolari, ben assecondato da un’impeccabile orchestra, che ha dato il meglio di sé in particolar modo nel gruppo dei fiati e dei violoncelli dai bellissimi impasti timbrici, particolarmente affascinanti. Contemporaneamente non trascura però nell’esecuzione il nerbo sinfonico e vibrante e impregnandolo di tensione teatrale, non perdendo mai il filo conduttore e narrativo.
La coproduzione, con la sola eccezione della Ljubaša di Anita Rachvelishvili qui cantata da Marina Prudenskaya, prevedeva insieme con Baremboim la conferma dell’intero cast e dell’allestimento già visto a Berlino l’ottobre scorso, permettendo così al pubblico della Scala di ascoltare interpreti sicuri nelle rispettive parti e di assistere a uno spettacolo nel complesso rodato. I personaggi si dividono in due gruppi distinti: la coppia di innamorati giovani e puri, interpretati qui da Olga Peretyatko (Marfa) e Pavel Černoch (Lykov) attorniati dal loro piccolo mondo, e quella a loro contrapposta immorale, criminosa e coinvolta in un gioco di potere e corruzione, cantata da Marina Prudenskaya (Ljubaša) e Johannes Martin Kränzle (Griaznoj). Spicca in questo quartetto di voci la Peretyatko al suo debutto scaligero. Soprano lirico dal timbro luminoso e purissimo che conferisce alla linea melodica morbidezza e trasparenza, ha grandi capacità sceniche e una notevole avvenenza cosi come la parte parte richiede. La sua è una Marfa fragile e appassionata che dopo una dolce e soave aria “A Novgorod vivevamo vicini”, tocca punte di vera commozione nella scena finale della pazzia, dove deve affrontare anche tratti di coloratura (un accenno dell’influenza operistica italiana) eccellentemente risolta. Di altrettanta bravura e vera mattatrice del palcoscenico la sua rivale, nonché amante respinta di Griaznoj, Marina Prudenskaya, che sfoggia una voce mezzosopranile doviziosa, brunita e ben tornita. L'interprete è bravissima nel creare un personaggio dalle diverse sfaccettature, è toccante nella sventura della donna abbandonata e sprezzata, come nella triste canzone cantata perfettamente a cappella nel primo atto, violenta e rabbiosa quando scopre di non essere più amata, turbata nella sua decisione di concedersi al dottore e confusa sul da farsi alla vista di Marfa. Accanto a lei Johannes Martin Kränzle è fascinoso e pieno di temperamento e ad onta di qualche durezza e fibrosità nel registro acuto, restituisce una caratterizzazione del protagonista a tutto tondo, rivelandone appieno i lato determinato quanto quello spietato e insensibile. Eccellente è la sua scena finale per intensità drammatica. Bella infine la voce del tenore Pavel Cernoch a cui è mancato però quel fraseggio dolce e ingenuo che dovrebbe caratterizzare il ruolo dell’innamorato e del sognatore.
A queste due coppie di protagonisti si aggiunge una nutrita schiera di personaggi secondari, ciascuno dei quali ha tuttavia, momenti vocali di rilievo. Meritano una menzione Anatoly Kotscherga e Anna Tomowa-Sintow, impegnati come guest stars nei ruoli rispettivamente di Sobakin, il padre di Marfa e Domna Saburova: vecchie glorie del palcoscenico con delle voci ormai secche e legnose e un canto al limite della proponibilità, si fanno valere tuttavia per le loro presenze ancora autorevoli e una cura estrema dell’accento. Convincenti sono il tenore Stephan Rügamer nel personaggio di Bomelij, subdolo e satanico medico, il contralto Anna Lapkovskaja nella parte di Dunjaša, l’amica più vicina a Marfa, e a seguire Carola Hőhn come Petrovna e Tobias Schabel nel ruolo di Maljuta.
La messa in scena è stata affidata a Dmitri Tcherniakov stimolante figura di regista astuto e moderno quanto basta per scuotere gli animi dei più reazionari, appartenente a quell’élite di nuovo corso di regietheater o di moderno teatro d'opera che dir si voglia. Tcherniakov alla sua quarta apparizione scaligera, autore qui anche delle scene (mentre i costumi sono di Elena Zaytseva, le luci di Gelb Filshtinsky e i video dell’équipe della Raketa Media), trasporta la vicenda ai nostri giorni in una sorta di studio televisivo dove gli Oprichnik trasformati in dirigenti di una televisione, dunque un gruppo di potere, costruiscono e mistificano la realtà proiettandola sul piccolo schermo col fine di manipolare le coscienze del popolo. Visione politica della Russia attuale quindi,all’insegna del mondo virtuale in cui viviamo e in cui poco sembra essere cambiato, nonostante il salto temporale di cinque secoli rispetto l’ambientazione originale del libretto: lo zar Ivan passato alla storia come il Terribile per risolutezza, cinismo politico e violenza, era un uomo ardito e incapace di soffrire opposizioni anche quando mise gli occhi sulla bella e sensibile Marfa. Riletta in chiave assolutamente originale questa figura, con la sua offuscante invadenza nella vita dei contemporanei e la sua bramosia relazionale, è trasformata in un’immagine video che mai compare fisicamente nell’opera ed è capace di assumere molte sembianze, dallo storico zar Ivan a Majakovskij, da Trotzkij a Eltsin.
Uno zar, quindi, somma di tutti gli zar che hanno governato: a sua presenza misteriosa e invisibile come una sorta di Grande Fratello spaventoso, manovra tutti con la grande ombra del terrore attraverso internet e la televisione . Per questo per avere ancora più credibilità lo “Zar-potere” fabbricato a tavolino cerca una moglie reale: le candidate appaiono e scompaiono tra video chat e schermi al plasma, assediate da fari e telecamere. Allestimento espressivamente stupendo quindi, tecnicamente innovatore (lo spazio scenico è suddiviso fino a quattro parti:lo studio televiso-set dove si costruisce l'immagine dello zar, la cabina di regia TV, la stanza del banchetto attigua e poi ancora al ruotare della scena il retro tenebroso del tutto, luogo vuoto e monocolore dove compare l'alchimista e dove si consumerà il patto con Ljubasa), curato nella recitazione di tutti i cantanti, delle comparse e dei coristi. Come sempre accade negli spettacoli molto meditati di Tcherniakov, c'è dietro un disegno d'intenti chiaro: non una banale trasposizione, ma un’interrogativo sulla tirannia e su come oggi questa possa essere rappresentata al meglio. Tcherniakov individua nel potere dell'immagine, al quale il mondo attuale è assoggettato, la risposta: quell’immagine virtuale e fugace schiavizza e al contempo affascina, perché è fondamentale apparire e non “essere”, e verosimilmente si lega perfettamente a quel periodo storico in cui il potere era esercitato sui sudditi tra paure, morti e smanie incontrollate. A differenza del pubblico berlinese, per cui il teatro di regia con le sue stimolanti critiche e discussioni è ormai consuetudine, quello iperconservatore della Scala (ma quanti però conoscevano l’opera?) non ha compreso la portata e il significato di questa regia eclettica, rivoluzionaria e per certi versi spettacolare che invitava a più profonde e attente considerazioni. Certo ai più sarebbe piaciuto sicuramente poter vedere una rappresentazione "fedele" al testo e con l'ambientazione originale, ma i linguaggi si trasformano e l’opera va resa vitale con soluzioni innovative ed interpretazione studiate e ragionate sempre coerenti al testo alla drammaturgia e alla musica che è sovrana. All’ultima recita cordiali accoglienze hanno salutato tutti gli interpreti alla fine della rappresentazione e con calore particolare la Peretyatko e Baremboin.