L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'illusione e l'assenza

 di Francesco Bertini

 

L'impianto tecnologico pensato da Paolo Micciché per la messa in scena di Norma, dopo un primo impatto spettacolare, stanca e delude per l'inconsistenza registica. I cantanti, tutti provenienti da diverse edizioni del concorso "Iris Adami Corradetti" a eccezione della protagonista, sono lasciati a loro stessi anche dal concertatore Tiziano Severini e solo l'Adalgisa di Annalisa Stroppa ha modo di brillare.

Padova, 16 ottobre 2015 -  La rappresentazione estiva di Così fan tutte [leggi la recensione] ha avviato la stagione lirica 2015 a Padova. Ma è la prima delle due opere, previste al Teatro Verdi, a destare nel pubblico la curiosità maggiore. Si tratta di Norma, titolo affrontato sempre con un certo timore reverenziale e assente dal capoluogo da un trentennio circa. È incoraggiante notare che, ultimamente, la composizione belliniana stia tornando, con maggiore tenacia, nei cartelloni teatrali italiani.

A intimorire i direttori artistici è soprattutto il quartetto vocale richiesto dalla partitura, concepita per dei cantanti monstre dell’Ottocento: Giuditta Pasta (Norma), Giulia Grisi (Adalgisa), Domenico Donzelli (Pollione) e Vincenzo Negrini (Oroveso). Padova accetta la sfida puntando, quasi per intero, su giovani usciti dal locale Concorso lirico internazionale “Iris Adami Corradetti”. L’allestimento, al contrario, è nato lontano: venne inizialmente commissionato dal Washington National Opera, nel 2003, quindi rivisto, nel 2005, per il Teatro Carlo Felice di Genova, dando una chiara esemplificazione stilistica del lavoro di Paolo Miccichè. Il regista e visual director approda a Padova dopo lunga ricerca e pratica delle nuove tecnologie visive, da lui stesso portate in Italia, nel lontano 1999, per la produzione areniana di Madama Butterfly. Le proiezioni costanti, sul fondale, e saltuarie, su un diaframma mobile, fanno da sfondo all’intero spettacolo, colorando anche le sagome di coristi e solisti. Secondo le parole dello stesso Miccichè (intervenuto alla conferenza stampa di presentazione) la grafia scenica, gestita attraverso software e hardware d’ultima generazione, consente di assecondare i mutamenti ritmico-narrativi con variazioni cromatiche parallele al procedere della musica. L’incedere visuale a tratti si abbina alle vicende, in altri caso inventa immagini puramente astratte. Vi sono riproduzioni naturalistiche e dell’operato umano, come l’antro della Sibilla cumana o la colonna traiana, sfondo al finale primo. Fa una certa impressione l’idolo ancestrale, dalle fattezze bestiali, proiettato verso il termine del secondo atto. Ma l’elemento predominante rimane il cerchio che nelle intenzioni registiche rappresenta la figura perfetta, richiamante l’iconografia celtica, ideale per evocare tanto il disco lunare quanto la protagonista, e la sua rabbia, manifestata dai colpi di tam-tam in orchestra (si rischia qualche confusione con lo “scudo d’Irminsul”). Per un po’ l’occhio è colpito dal cromatismo essenziale del regista, tuttavia, col procedere della recita, l’attenzione viene meno. La scarna drammaturgica belliniana si scontra con la quasi assente idea registica: alla scena neutra s’abbina un’inesistente e inconsistente caratterizzazione dei personaggi. Purtroppo la visione grafica di Miccichè è fine a se stessa, predilige le immagini trascurando di rendere l’opera intelligibile al pubblico attraverso musica, testo e interpreti. I costumi, firmati da Alberto Spiazzi, non giovano alla definizione spaziotemporale.

Come già era accaduto lo scorso anno, in occasione di Madama Butterfly [leggi la recensione], di nuovo Tiziano Severini, da solo, pregiudica gran parte dell’esecuzione. Il concertatore romano presta attenzione all’esecuzione orchestrale, con dinamiche che dall’impalpabile passano al fragoroso e agogiche fin troppo dilatate, dimenticando sovente l’indispensabile rapporto con il palcoscenico. È evidente l’incedere in direzioni opposte: dalla buca il direttore impartisce indicazioni all’Orchestra di Padova e del Veneto, mentre i solisti arrancano nel tentativo di individuare attacchi imprecisi o inesistenti. A risentire di questa situazione sono da un lato i solisti, con entrate a volte incidentate, dall’altro il Coro Città di Padova, istruito da Dino Zambello, letteralmente allo sbando nei numerosi interventi di fondamentale importanza nella strutturazione dell’opera.

L’artista più convincente risulta Annalisa Stroppa (terza classificata al Corradetti 2009), Adalgisa. Il suo strumento è corposo in tutta la gamma, specie nei centri, duttile, salvo alcune lievi tensioni nella salita all’acuto, e morbido. Ma la carta vincente, nell’assenza registica, è indubbiamente l’intensità espressiva e il fraseggio, attento a rendere veritiero il personaggio.

La protagonista, unica non proveniente dalla competizione canora padovana, è Saioa Hernández, allieva, tra gli altri, di Montserrat Caballé, celebrata interprete di Norma nel secolo scorso. Il soprano madrileno, legato al ruolo dal debutto italiano nel 2009 al Teatro Massimo Bellini di Catania, tende a scurire l’emissione, compromettendo di conseguenza l’agevole ascesa del pentagramma. L’espediente, attuato in mancanza della necessaria corposità per affrontare taluni passaggi, sminuisce la portata tragica della sacerdotessa. La resa della druidessa richiede musicalità e allo stesso tempo spiccato senso teatrale: la Hernández appare invece un po’ freddina e incostante durante la recita. Nonostante l’impegno, le possibilità e talune valide sfumature, è lontana dal rendere credibile la parte, pure penalizzata dalla dizione, a tratti incerta.

Nei panni di Pollione, Luciano Ganci (finalista al Corradetti 2010) conferma le potenzialità timbriche notate in passato. Colpiscono però i gravi deficit nell’intonazione, l’abitudine, sempre marcata, ad abusare del canto stentoreo e certe disomogeneità che intaccano la definizione dei tratti peculiari del proconsole romano.

Cristian Saitta (terzo classificato al Corradetti 2012), Oroveso, spoggia frequentemente i suoni, col rischio di fare perdere smalto ad uno strumento particolarmente dotato.

Completano il cast Alessia Nadin (finalista al Corradetti 2012), Clotilde poco incisiva, e Antonello Ceron (vincitrice al Corradetti 1996), Flavio.

Il pubblico ha seguito la recita senza palesare grande coinvolgimento e tributando, al termine, solo cordiali consensi.

foto Giuliano Ghilardini


 

 

 
 
 

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