L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il sentiero nascosto

 di Roberta Pedrotti

 

Splendida trasgressione sinfonica nel cartellone di Musica Insieme. Il violinista Ning Feng e i Münchner Symphoniker propongono un programma non solo accattivante e in un'esecuzione smagliante, ma anche costruito con intelligenza storica e stilistica. Una proposta culturale esemplare.

BOLOGNA, 13 aprile 2015 - Il cuore di Musica Insieme è cameristico e pulsa fra solisti e quartetti. Con un'identità così forte un piccolo tradimento può esser ben giustificato, anche perché non possono essere molte le sirene così seducenti da imporre una deviazione a un programma artistico tanto consolidato.

Certamente il violinista Ning Feng, onusto di meritati riconoscimenti, e i Münchner Symphoniker giustificano ampiamente la scelta di inserire in cartellone un concerto più sinfonico che cameristico.

Alle prese prima con il Concerto n. 1 in re maggiore op. 6 di Paganini, poi, come bis, con un capriccio sempre del Genovese, l'artista cinese ha modo di esprimere tutta la sua personale affinità con il mito dell'archetto, non solo e non tanto per il pur notevolissimo virtuosismo, per la perfetta intonazione e l'impeccabile controllo di tutte le gradazioni dinamiche, ma anche per il gusto così personale con cui fa rivivere l'ideale ottocentesco del virtuosismo demoniaco, dimostrando un'accorta sensibilità sia all'aspetto cantabile, vocale perfino (difatti la monodia soprattutto lo vede brillare, sia essa spiegata o di coloratura), sia a un'astrazione strumentale che trova riflessi modernissimi e seducenti, magnetici e stranianti.

L'orchestra, diretta con confidenza da un fido ancorché non indimenticabile Ariel Zuckermann, fa onore alla fama propria e, in generale, delle compagini tedesche e bavaresi. Suono pulitissimo, sezioni terse che agiscono come un sol uomo, capacità di raccogliere la luce fra luminose radure e morbide penombre, in un equilibrio e in un gioco di sfumature e contrasti delicato quanto incisivo. Una vera gioia sonora, con quel timbro caldo e smaltato che sa, all'occorrenza, illuminarsi di luce propria. Gli archi, per scelta evidente, prevalgono, ma dove sia richiesto – soprattutto da Paganini – legni e ottoni mostrano anche nella loro elegante discrezione una personalità che lascia il segno e ci fa sognare tanto primo Ottocento italiano eseguito a tal maniera.

Una splendida orchestra ed uno splendido solista valgono già in buona parte la serata, così come la vale la bellezza del programma, ma più ancora della qualità dei singoli brani, è l'intelligenza e l'interesse degli accostamenti a destare ammirazione e a rendere la serata degna d'essere ricordata.

La scelta non è banale, ma ascoltando Joseph Martin Kraus e la sua Sinfonia in do minore VB 142, il citato concerto paganiniano, l'ouverture da Estrella de Soria (1862) di Franz Adolf Berwald e la Sinfonia in sol minore Hob. I:83 – La Poule di Haydn è chiaro che non si tratta di rarità fini a se stesse. Innanzitutto ci dimostrano il rapporto simbiotico fra la musica cosiddetta pura e quella teatrale, lo scambio continuo e reciproco fra opera, voce, strumento e orchestra.

Sarà mai approfondito abbastanza il rapporto fra Paganini e Rossini al di là dell'aneddotica legata alla ben nota amicizia fra i due? Fatto sta che ascoltare il rutilante Concerto n. 1 potrà far storcere il naso a qualche purista strumentale, mentre rivela tutta la sua ragion d'essere se si pensa che fu composta fra il 1817 e il 1818, ovvero quando Rossini allestiva, fra le altre, La gazza ladra, Armida e Ricciardo e Zoraide. Ecco dunque far capolino un'evidentissima citazione dal tema del finalino a vaudeville della Gazza (“Ecco cessato il vento”), e molte altre allusioni più o meno reali, più o meno enigmatiche. Ecco dunque fiati e percussioni echeggiare i due drammi napoletani su cavalieri cristiani in Nubia o Terra Santa, soprattutto considerando che proprio nel Ricciardo Rossini utilizzò per la prima volta la banda interna. Contestualizzata storicamente e stilisticamente questa musica, anche al di là del suo splendore violinistico, assume uno spessore che forse sfuggirebbe isolandola dall'ambiente in cui fu concepita ed eseguita. Eppure, e pare chiaro anche a Feng, sembra impossibile concepire, anche nella sua peculiarità, il virtuosismo del violino di Paganini senza aver presente il belcanto rossiniano, specie come lo racconta il Garcia.

Similmente ascoltare l'ouverture di un'opera di uno svedese come Berwald (1796-1868) di poco più giovane di Rossini, di diciassette anni più anziano di Wagner, è utilissimo a inserire nuove tessere nel labirintico mosaico dell'opera – e della musica tout court – in Europa nel XIX secolo.

Soprattutto, però, piace l'apertura con Kraus, coetaneo di Mozart e come lui scomparso giovanissimo (nel 1792, esattamente un anno dopo rispetto al Salisburghese): ascoltandola il pensiero vola subito a quelle riflessioni critiche tese a ravvisare un'ispirazione Sturmer nella sinfonia n. 25 di Wolfgang Amadé, mostrando come, al di là di suggestioni letterarie, il gusto per certi ritmi e certe sonorità facesse parte di una koiné musicale condivisa senza particolari sovrastrutture concettuali e, ovviamente, fosse meglio espressa, con gli esiti più innovativi e interessanti – ma non necessariamente rivoluzionari – dalle menti più acute e sensibili. Kraus fu senza dubbio fra queste e il suo ascolto non sminuirà certo Mozart, ma, una volta di più, aiuterà a meglio comprendere la sua arte e il suo tempo, oltre ad apprezzare un altro talento meno noto.

Proprio da questo punto di vista, se vogliamo, è significativa la presenza di Haydn, con una sinfonia ironica come la parigina La poule, che pure, con il suo impianto in minore, non manca di echeggiare qualche tumultuosa inquietudine. Noti e meno noti, grandi e meno grandi, già solo gli autori di questo programma suggeriscono un microcosmo creativo che può essere anche per l'esecutore, anche per un fruitore non più, quindi, passivo occasione di continua ricerca, riflessione, lieto e curioso abbandono a un contesto tutto da esplorare e assaporare.

La storia della musica non è fatta di generi, di stili rigorosamente scanditi o di singole opere di genio. Oltre la consapevolezza teorica, concerti come questo, così intelligenti e ben eseguiti, ce lo rammentano bene nella pratica.


 

 

 
 
 

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