Una preghiera laica
Un approfondimento sulla Pietà nell’arte, e in questo caso della danza, che richiama connessioni ad essa riconducibili capaci di esaltare l’intensità del dolore, dando volume ai corpi, alla passione e al senso di introspezione nonché di condivisione.
VENEZIA, 23 novembre 2024 – Michela Barasciutti per la rassegna VeneziainDanza 2024 da lei diretta ha portato in scena la nuovissima creazione Stabat Passio sulla base della versione diArvo Pärtdell’inno solenne del XIII secolo attribuito a Jacopone da Todi, dedicato a Maria, con una elaborazione musicale (a cura di Stefano Costantini) comprendente pagine di Giovanni Battista Pergolesi, Georges Ivanovič Gurdjieff, Johann Sebastian Bach, Henry Purcell. La coreografia inizia come un’espressione astratta del dolore di Maria, convertendola successivamente in un appello al dolore e al lutto individuali equivalenti, corrispondenza espressa in modo drammatico. La sequenza si apre con l'immagine della Madre piangente ai piedi della croce da cui pende il figlio. Poi, il focus cambia: “Chi non piangerebbe se vedesse la Madre di Cristo in un dolore tanto grande?”. Infine, si leva la supplica di chi canta l’inno (e perché no a chi lo danza o a chi assiste) di potersi unire nel pianto, di condividere il dolore e le lacrime, di sentire ogni ferita, trovando nel giorno del Giudizio la difesa della Vergine. Quindi Stabat Passio è essenzialmente un certame, una preghiera laica come l’ha definita la stessa coreografa, un guanto di sfida lanciato agli spettatori (credenti e non) affinché camminino insieme empaticamente piuttosto che limitarsi a parlare senza nulla muovere. Apparentemente Barasciutti colloca la danza dove dovrebbe essere, data la sua origine e natura: all’interno di uno spazio vuoto che richiama ai più attenti un luogo sacro (e quale può essere in alternativa più significativo di un palcoscenico teatrale?). Scrivo apparentemente, perché la scenografia non riproduce l’interno di un santuario ma il clima così denso di spiritualità ha trasformato le poltrone del Teatro Malibran in ipotetici banchi da chiesa, dove lo spettatore sembra costretto a cambiare più volte posizione insieme ai danzatori mentre questi ultimi lottano con il “peso” che viene da loro assunto. Mostrare il processo di interiorizzazione del dolore, con poco altro fino alla conclusione, può essere ponderoso a meno che non sia accompagnato da una estetica che tocchi il cuore del pubblico. Barasciutti supera l’assenza scenografica focalizzando il contenuto con movimenti indicativi. Con un soggetto come questo, una parte musicale miscelata tra autori così diversi tra loro ma che non risente di stacchi, e l’ispirazione dell’inno medievale, la passione e l’equilibrio visti come grazia preziosa per l’uomo aumentano l’impatto della danza. Il pieno dolore non diventa tangibile fino alla fine, quando, rappresentando la completa interiorizzazione del dolore della Madre e della sofferenza del Figlio, i ballerini in sequenza danno eloquenza al gesto specchiandosi tra loro.
La danza non sempre ha bisogno di virtuosismi o tecnicismi spinti alla massima potenza, a volte, come in Stabat Passio, basta la riflessione di un gesto, di una intenzione o di uno sguardo. Questa “passione” gode di una costruzione sorprendente sospesa nel nero del fondale che riflette e concentra la luce, amplificandola ma anche disperdendola in opposte direzioni come fossero messaggi diretti ai più. Una donna, un uomo a tratti emergono e tentano di spingersi oltre i confini degli altri ballerini, ma rapidamente non arrivano da nessuna parte. Escono, entrano. Ritornano al gruppo. Poco dopo, un’altra donna o un altro uomo diventa la figura centrale. Mentre cerca di avanzare, viene avvicinata o allontanata dal resto della moltitudine che si erge come barriera impenetrabile. Dopodiché un’altra figura tenta la stessa mossa ma con più fervore. Ogni volta che prova un movimento lirico e fluido, viene bloccata da ballerini-barriere. Il pubblico intravede il tipo di energia che a rotazione cercano di affermare, e c’è la conferma che i colori rinascano nel cambiamento. I danzatori tentano per sessantasette minuti di penetrare nella coscienza altrui, fin quando i confini cedono e, man mano che la scena procede, si scorge quanto sia rinfrescante il loro movimento e quanto sia più “largo” di quello visto in precedenza. Gli interpreti della Compagnia Tocnadanza Venezia Sara Cavalieri, Fabio Caputo, Roberta De Rosa, Erika Melli e Giulio Petrucci (quest’ultimo anche assistente alla coreografia) si sono distinti in ciascuna delle sequenze, dalla più lirica ed eterea a quella più comunicativa, nella condivisione oltre al corpo, al tempo e all’anima. Parte della struttura coreografica è evidente in una metrica lineare sia nel passare del tempo sia nella crescita. Il soggetto scelto da Michela Barasciutti è coraggioso, molto forte - probabilmente non fruibile a tutti -, è colto senza eccessivi concettualismi; il sentire del singolo si fa metafora della lotta individuale contro ostacoli apparentemente insormontabili; mostra l’isolamento, cambia e si evolve mentre affronta l’ignoto. La compassione passo dopo passo si trasforma raggiungendo la bellezza. Allo stesso modo è anche un lavoro maturo di una coreografa esperta che comprende e impiega efficacemente strumenti compositivi classici che mutano in una danza contemporanea, mettendo alla prova il suo affiatato ensemble. La scena conclusiva e i ripetuti applausi diventano un tutt’uno liberatorio ed empaticamente riflettente. Ogni componente di Stabat Passio funziona: le luci e i costumi, l’atmosfera, la musica e l’esecuzione. E tutto adempie allo scopo previsto da Michela Barasciutti: illustrare le sfide e gli sforzi compiuti senza piegarsi a strategie da botteghino. Non coreografa la musica per il gusto fine a sé stesso di coreografarla. Le sue danze amplificano qualsiasi partitura venga utilizzata. I suoi sono più che altro sforzi riusciti per esporla emotivamente. Ha un senso di ariosità, ma questa ariosità è spesso interrotta – intenzionalmente – da silenzi e nuove sonorità per circoscriverne il senso di libertà. Termina con l’immagine di un ballerino sostenuto dagli altri componenti della Compagnia come fosse un dipinto di Tiziano, oppure di El Greco, Caracci, Giotto, Van Dyck, Rubens, Perugino e via via di tutti quei maestri che hanno “abbracciato” tale potenza iconografica in attesa di nuovi “salvatori”.
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