L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Tristan und Isolde, i pragmatici di Schneider

di Francesco Lora

Con Schneider subentrato a Chung, le recite viennesi del capolavoro wagneriano perdono nell’impatto massmediatico ma non nella levatura artistica, qui tenuta alta da un direttore tanto umile quanto competente e da una compagnia di canto tra le migliori immaginabili: tra la Urmana e Smith, si erge la prova eccellente di Dohmen

VIENNA, 17 dicembre 2013 - Sul finire del bicentenario della nascita di Wagner, molta aspettativa s’è infittita attorno alle ultime quattro recite di Tristan und Isolde alla Staatsoper di Vienna (8-21 dicembre): primo aspetto d’interesse, la direzione affidata a Myung-Whun Chung. Ma il direttore sudcoreano ha poi rinunciato all’impegno, e insieme col cadere del castello di carte massmediatico è spuntato, al suo posto, Peter Schneider. Un ripiego sul quale sbuffare? Non proprio. Si ricordi, di Chung, il Tristan plumbeo e greve di Roma 2004, genericamente interessante ma dimenticabile oltre che tagliatissimo, o quello di Venezia 2012, diretto con più tecnica che ispirazione, e non all’altezza del superbo Otello verdiano col quale intrecciava le recite e condivideva la bacchetta. E si ricordi, nel contempo, la lunghissima militanza di Schneider come interprete del capolavoro wagneriano, comprese le molte recite dirette negli ultimi anni al Festival di Bayreuth: tutt’altro che routinier, egli vanta di questo titolo una conoscenza solida, genuina, capillare, priva di velleità cervellotiche e umilmente posta al servizio della musica e del canto. Questa sapienza nella modestia, che ricorda da vicino l’apostolato di Karl Böhm come interprete mozartiano e straussiano, dà frutti succosi soprattutto a Vienna, dove la temperamentosa Orchestra della Staatsoper è da sempre restia a farsi domare da divi pretenziosi, ma si presta in un istante al dialogo con un direttore di più pragmatica estrazione: se c’è Schneider sul podio, a staccare tempi drammaticamente incalzanti anziché immobilizzati nell’estasi, l’orchestra diventa un modello di equilibrio tra le diverse sezioni, nonostante l’inconfondibile rombo di motore e la benvenuta concessione ad alcuni lampi virtuosistici.

Talvolta, è vero, onda e risacca sinfonica nel golfo mistico fanno boccheggiare le voci. Ma da molto e molto tempo non v’è notizia di un Tristan dove orchestra e cantanti possano agire ad armi pari: se all’esuberanza dell’una non sarebbe sensato tarpare le ali, il valore degli altri è oggi elargito sempre più al millilitro, nella volontà di dosare le forze attraverso un’opera snervante. E non v’è dubbio che a Vienna sia stata schierata una tra le migliori compagnie di canto immaginabili. Robert Dean Smith è oggi il Tristan di più sicuro riferimento; riconfermato a oltranza a Bayreuth, negli anni egli ha anche affinato la psicologia del personaggio, oggi più che mai giovanile e fragrante d’accento a dispetto di una minor freschezza vocale, e ha nel contempo finito d’addomesticare una parte senza riposo, sostenendo la “tirata” dell’atto III con una sicurezza invidiabile. Al suo fianco vi era l’Isolde di Violeta Urmana, così diversa da sé stessa rispetto al debutto romano di nove anni fa: allora ella stava iniziando a sbozzare un personaggio maiuscolo e a lasciare la corda mediosopranile per quella sopranile tout court; ora il personaggio è matura sintesi di invettiva e abbandono, e l’avviato ritorno alla corda mediosopranile unisce la sfarzosa carnosità timbrica allo scattante scarto da un registro all’altro. Non disturba che la Brangäne di Elisabeth Kulman, nominalmente mezzosoprano, esibisca accanto a lei un corpo vocale più lirico e diafano, invertendo la consueta distribuzione di calibri. Sorprende piuttosto che un liederista osannato come Matthias Goerne, per connotare di maschia franchezza la parte di Kurwenal, indulga a fibrosità che stancano l’emissione e opacizzano il timbro. Su tutti si erge Albert Dohmen come Re Marke, risonante d’armonici come un organo dalla prima all’ultima nota, museo di sfumature senza mai essere calligrafico, presenza scenica che paralizza fin dalla prima muta apparizione: il suo monologo alla fine dell’atto II è cifra di arte interpretativa superiore e, tra le altre cose, premia una regìa che molto confida sul carisma dell’attore. Quest’ultimo non è certo un difetto: lo spettacolo con regìa di David McVicar, scene e costumi di Robert Jones e luci di Paule Constable dimostra infatti nel suo complesso come si possa mettere a punto un allestimento agile e di gusto contemporaneo senza disattendere l’originale ambientazione medievale, la naturalezza del gesto e la simbiosi col canto, e nel contempo senza rinunciare alla psicologia delle luci e al ricorso a simboli (si pensi al duetto d’amore intonato davanti a strutture astratte che rinviano alla psicanalisi di Freud, o più semplicemente al manto nero di Isolde accorsa al capezzale di Tristan, manto che nel ricadere all’indietro scopre un’amante tutta rossa d’amore e sangue). Un trionfo annunciato, con o senza Chung.


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