L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'elfo della musica

 di Alberto Spano

Gino Brandi, pianista classe 1930 di classe innata e talento alto quanto sfuggente a ogni classificazione, offre un recital d'inizio anno articolato nel programma e generoso nei bis quanto poeticamente elevato e intenso.

OZZANO DELL'EMILIA (BO), 1° gennaio 2016 – Assistere a un concerto di Gino Brandi è ormai diventato un rito quasi iniziatico. Il quasi ottantaseienne pianista di Tolentino, classe 1930, già allievo di Amilcare Zanella e Alfredo Casella, da alcuni anni dona concerti memorabili che il più delle volte si rivelano momenti di musica e di poesia allo stato puro, al di fuori di qualunque circuito concertistico ufficiale. Ne è stato d'esempio il bel concerto “Saluto al Nuovo Anno” tenuto il primo gennaio alla Sala Città di Claterna di Ozzano dell'Emilia, un evento offerto dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Ozzano in collaborazione col Circolo della Musica di Bologna e la Pro Loco Locale, che ha provocato un pienone di pubblico come non si vedeva da tempo. Gino Brandi, che dai primi anni '40 fino alla metà degli anni '70 è stato protagonista di un apostolato concertistico che ha pochi uguali in Italia, ha progressivamente diradato le sue apparizioni in sala di concerto, ma negli ultimi tempi, risolti alcuni problemi di salute che lo avevano afflitto negli anni del fulgore, è tornato alla ribalta con eccellenti risultati, pur rimanendo fuori dal grande giro.

Timido, introverso, antidivo per eccellenza, Gino Brandi è uno di quegli interpreti che si amano al primo ascolto: di statura minuta, non è certo il pianista di potenza da grandi ottave e masse muscolari, di quelli, tanto per intenderci, adatti ad affrontare i grandi concerti per pianoforte orchestra tardo-romantici. Eppure è dotato di una tecnica estremamente evoluta e naturale che lo esclude da qualsivoglia scuola pianistica conosciuta: osservarlo suonare è una gioia per le orecchie ma anche per gli occhi. La mano ferma, la postura classica, l'articolazione perfetta, il legato prodigioso (quasi organistico, sospettiamo studi giovanili), in più la capacità di adattamento automatico a qualsiasi tastiera costituiscono nel suo caso un mix che semplicemente sbalordisce. Nato per suonare, si direbbe, con una confidenza verso lo strumento e il repertorio che lascia ogni volta di stucco: facilità di approccio, verrebbe da aggiungere, anche musicalità primigenia, se non fosse che dietro queste due espressioni un po' banali si cela un intero e affascinante universo artistico e umano. È difficile spiegare il pianismo di Gino Brandi, come a suo tempo fu difficile spiegare quello di Wilhelm Kempff, che fra i grandi pianisti del passato è forse quello al quale più sembra avvicinarsi il Nostro. Kempff nasce organista in Germania alla fine dell'Ottocento, e con mentalità prettamente organistica rimane anche come pianista per tutta la vita: dotato cioè di quella capacità di legare i suoni fra di loro attraverso una tecnica di dito che è impossibile indagare, tanto è intimamente connessa alla scelta di suono e all'approccio alla tastiera. Brandi nasce nel 1930 e parte invece subito dal pianoforte, come fanciullo prodigio, abituato a palcoscenici difficili e repertori da uomo adulto fin dall'età di 9 anni, periodo di un suo leggendario debutto alla Sala Verdi del Conservatorio di Milano. Stupiva allora la maturità del bimbo che suonava “da grande” – lo testimoniano le entusiastiche cronache del tempo – ; commuove ora la grande maturità dell'anziano maestro che suona col candore e la grazia infinita di un adolescente, in una specie di ribaltamento dei ruoli.

Il recital di capodanno offriva una serie di brani di vari autori solo apparentemente avvicinati per caso. Apriva l'Omaggio a Scarlatti dello stesso Brandi, una interessante pagina che pare improvvisata, ma dalla pronunciata forza evocativa e molto finemente scritta; per passare a due Sonate scarlattiane, una lenta e una veloce, offerte con aerea levità ma con una evidente connotazione stilistica, fatta di piccoli rubati para-clavicembalistici in una visione che vorremmo dire 'dannunziana'. Lo scrittore abruzzese ha lasciato una memorabile pagina letteraria su Domenico Scarlatti nel romanzo Il piacere: Brandi sembrava averla riletta poco prima. Seguiva la raramente eseguita Fantasia in do minore BWV 906 di Bach, un poderoso e audace Allegro di Sonata, in cui Brandi è stato capace di mettere in rilievo tutta la potenza armonica che caratterizza questa pagina di inusitata modernità, cara ai pianisti di fine Ottocento per la sua quasi romantica forza espressiva. A tanta potenza e ampollosità faceva da contraltare la grazia quasi rococò della Sonata in re maggiore op. 25 n. 6 di Muzio Clementi, nella quale Gino Brandi ha fra l'altro saputo mettere in rilievo e con grande perizia il carattere sottilmente autoironico. Senza mai alzarsi dal seggiolino fra un applauso e l'altro (unico evidente indizio d'età del grande artista), Brandi ha poi delibato due Improvvisi di Schubert (in mi bemolle maggiore e la bemolle maggiore), lasciando ben intendere ai numerosi pianisti e docenti presenti in sala come si fraseggia un canto spiegato al pianoforte, con un suono staccato-legato nell'accompagnamento veramente d'altri tempi. Poi due pezzi isolati dal Carnaval e dai Pezzi Fantastici di Schumann: “Chopin” e “Slancio”. Brani segnati in locandina, ma in realtà ivi collocati come due fuoriprogramma della prima parte, con sapido gusto salottiero.

Nella seconda parte solo Chopin. Ma che Chopin! Esordio con due Studi scelti fra i più lirici, cioè l'op. 10 n. 6 e l'op. 25 n. 2. Brandi qui sembra proprio un elfo della musica, la cui natura rimane poetica anche nel virtuosismo, che pure è ancora sovranamente dominato dall'alto delle sue prodigiose 85 primavere. Poi tre Preludi op. 28, i n. 6, n. 15 “La goccia d'acqua” e n. 20, nei quali Brandi dispiega tutta la sua intatta capacità narrativa, poi un altro suo piccolo Omaggio a Chopin, buttato lì tanto per fare da aperitivo a due squisite Mazurche (op. 7 n. 1 e op. 33 n. 4) scelte fra le 58 composte da Frédéric, poi la Tarantella op. 43, brano del polacco ispirato a Napoli in cui Brandi coglie alla perfezione il fortissimo spirito evocativo. Infine due gemme assolute suonate con toccante poesia come i Notturni in fa minore e in si bemolle minore e il Grande Valzer Brillante in mi bemolle maggiore op. 18, brano quelt'ultimo in cui il Nostro ha sfoderato un piglio e un'energia adolescenziale, con un certo sprezzo del pericolo tipico del fuoriclasse assoluto.

Al lungo programma ufficiale seguivano numerosi bis, generosamente elargiti in un 'dopo concerto' entusiasmante: il celebre Notturno in mi bemolle maggiore op. 9 n. 2 e la prima guizzante Scozzese op. 72 di Chopin, la Danza del Fuoco di Manuel de Falla con tutti gli irresistibili effetti teatrali di rubinsteiniana memoria, come ad esempio lo spettacolare mulinello delle mani sulla tastiera nei famosi accordi ribattuti, infine la Marcia Turca di Mozart, eseguita tutta d'un fiato.

Nella prima parte del concerto, a mo' di introduzione colta, il dottor Gualtiero Dalmonte, medico dentista bolognese, esegeta dantesco di comprovata fede, aveva declamato a memoria, con bravura e non comune forza espressiva, il Canto d'Ulisse dalla Divina Commedia.


 

 

 
 
 

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