L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

riccardo muti e ildar abdrazakov

Il mondo di Muti

 di Francesco Lora

Il Ravenna Festival vanta ben tre concerti con Riccardo Muti alla testa dell’Orchestra Cherubini: se l’approccio a Mozart, Beethoven e Schubert è compiaciutamente non d’avanguardia, in Verdi e Boito il massimo direttore italiano e i suoi musicisti non temono confronti.

RAVENNA, 3 luglio 2016 – Riccardo Muti porta un amore antico e costante per la scuola musicale viennese tra Sette e Ottocento: Gluck, Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert su tutti, con curiosità anche per Fux, Caldara e Salieri. Il suo ultimo lustro di attività ha recato, lungo tutto il repertorio, letture più gravi e pensose che in precedenza, dando luogo a una controtendenza caparbia, orgogliosa, un poco donchisciottesca: mentre generazioni intere di musicisti e musicofili sono ormai cresciute secondo la lezione filologica di Harnoncourt, Hogwood e Gardiner (classi 1929, 1941 e 1943: un fenomeno parallelo alla carriera del massimo direttore italiano), Muti ha sempre respinto l’indagine dei pesi, dei timbri e dei fraseggi originali, non solo proseguendo la tradizione tardoromantica, ma anche restaurando oggi l’estremo opposto, ossia quello professato da un Böhm oltre mezzo secolo fa.

Si ascoltano così un Mozart, un Beethoven e uno Schubert dal fraseggio legatissimo, staccati a passo lento e lungo, poderosi nel porgere, severi nell’incedere, pulviscolosi e plumbei nei timbri, che paiono assorbire ogni luce anziché riflettere ed emanare (la lezione di Claudio Abbado: forse questa volta non sarà gratuito evocarlo). Di tutto si ha esempio recente in due dei tre concerti di Muti nel corso del Ravenna Festival: il 4 giugno nel Palazzo Mauro De André e il 5 luglio nel Teatro Alighieri. Nel primo programma si ha uno Schubert inquieto e misterioso, con la Sinfonia n. 8 in Si minore “Incompiuta” D 759, e un Beethoven sontuoso nel canto e monumentale nell’impianto, con l’Ouverture “Coriolano” op. 62 e la Sinfonia n. 5 op. 67 (che condividono lo stesso Do minore; nella sinfonia, impressionante risulta la rimonta eroica e l’innovazione di carattere al trascorrere dal terzo movimento al quarto).

Nel secondo programma si ha invece un Mozart fosco e senza involo, tanto nella Sinfonia n. 35 in Re maggiore “Haffner” K 385, quanto nel Concerto in Si bemolle maggiore per fagotto e orchestra K 191; solista in quest’ultimo è David McGill, che raddoppia la prova di bravura nella virtuosistica Fantasia per fagotto su vari pensieri del “Trovatore” del Mo Giuseppe Verdi di Francesco Cappa: un ritrovamento caro a Muti, come rivendicazione dell’importante ruolo italiano non solo nel repertorio vocale, ma anche in quello strumentale di metà Ottocento. Alla somma di quanto detto, il discernimento impone un giudizio bifronte: da una parte un approccio alla Vienna classica e romantica compiaciutamente datato, foriero di qualche imbarazzo a chi cerchi la vicinanza dell’opera più alle intenzioni dell’autore che alle sovrastrutture della tradizione; dall’altra parte, l’ammirazione per il sovrano dominio tecnico del direttore, che alla testa dell’Orchestra giovanile “Luigi Cherubini” non solo illustra la propria idea, ma sempre sa guidare alla sua realizzazione compiuta: l’intesa tra il podio e le sezioni dimostra come questa sia una tra le più ferrate e smaglianti orchestre italiane, degna di ruolo internazionale ed emblematica del valore – elevato ma negletto – dei diplomati nei nostri conservatorii.

Se l’approccio di Muti e della Cherubini a Mozart, Beethoven e Schubert non è d’avanguardia, il cartellone del Ravenna Festival non manca di presentare direttore e compagine anche su un terreno nel quale non temono confronti. Se ne ha chiara coscienza quando, dopo Mozart e a incorniciare Cappa, si ascoltano le rare Sinfonie della Giovanna d’Arco e della Battaglia di Legnano: ecco la macchina ritmica, ecco il fraseggio franco, ecco il Verdi risorgimentale del quale Muti possiede la più autentica chiave interpretativa.

L’apoteosi del discorso e del festival è tuttavia nel secondo dei tre concerti mutiani: Palazzo Mauro De André, 3 luglio, niente viennesi ma programma per metà verdiano e per metà boitiano. L’appuntamento è quello, tradizionale, delle Vie dell’Amicizia, quest’anno tese dall’Italia e da Ravenna al Giappone e a Tokyo: con la Cherubini si fonde dunque la Tokyo-Harusai Festival Orchestra, e alle due compagini strumentali si aggiungono il Coro del Teatro Petruzzelli di Bari, il Coro del Friuli - Venezia Giulia e il Coro di voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala. Costituito il colossale organico, Muti dà fuoco alle polveri, con virtuosismo direttoriale ineffabile, alla Sinfonia e al Coro d’introduzione del Nabucco, all’aria del protagonista dall’Attila, ai Ballabili nell’atto III del Macbeth, alla Sinfonia dalla Forza del destino e al Coro della processione dai Lombardi alla prima crociata. La maturità dell’esegesi fissa un nuovo punto di non-ritorno, dove Muti solo sa cosa si possa trarre dal dettato verdiano, dall’erudizione della sua strumentazione e dalla sottigliezza della sua forza drammatica.

Dopo Verdi, l’altro genio del teatro musicale italiano nel secondo Ottocento: Boito, con il Prologo del Mefistofele. Cantata la scena dall’Attila, Ildar Abdrazakov torna sul palco per calarsi nei panni diabolici: lieve affaticamento d’emissione nell’estivo caldo d’inferno che serra l’antica capitale dell’impero romano; e nondimeno una pasta di sontuoso esotismo orientale, facile all’ascesa all’acuto e alla sostanza del grave, nonché un piglio sia autorevole sia giovanile sia seducente sia sarcastico. Intorno al basso solo, Muti scatena l’iradiddio, nel gorgogliante vorticare degli archi, nello scherzare delle voci bianche, nell’affresco corale della massa, nel colossale rimbombare dei cori d’ottoni, nello schianto degli accordi a tutta forza. Egli stesso, nel posare la bacchetta dopo l’infinito pedale conclusivo, pare scuotersi fiaccato e stupirsi di quella visione di Dio così titanicamente suscitata.


 

 

 
 
 

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