L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Soglia di genialità: un nuovo regista per Monteverdi

 di Francesco Lora

 

La gemma dell’ultimo Festival della Valle d’Itria è il Ballo delle ingrate allestito insieme con due madrigali dal Libro ottavo: con una regìa-capolavoro si rivela nel teatro lirico il giovane Giacomo Ferraù, assecondato da cantanti eccellenti – in testa il basso Eugenio Di Lieto, altra scoperta – e dalla lettura musicale di Antonio Greco.

MARTINA FRANCA, 1o agosto 2017 – Tre composizioni musicali eterogenee. Or che ’l ciel e la terra e ’l vento tace è un madrigale in tre sezioni e incrementato, rispetto alla forma convenzionale, d’una sesta voce, di due violini e del basso continuo. Un madrigale ancor più licenzioso è – se lo è – Non avea Febo ancora, a tre voci virili: nella seconda delle sue tre parti la polifonia è incastonata sul celebre Lamento della ninfa, a sua volta intonato da un soprano su tetracordo discendente e in stile rappresentativo (cioè non evocando coralmente gli affetti ma concretamente impersonandoli con gesto scenico e discorso diretto). Il Ballo delle Ingrate, infine, non è un madrigale ascrivibile agli anni ’20-30 del Seicento, come i precedenti, ma un balletto di corte creato nel 1608 a Mantova, in occasione delle nozze del principe Francesco Gonzaga con l’infanta Margherita di Savoia: per non stancare il duca Vincenzo I, il neosposo e gli altri nobili che vi partecipavano danzando, in esso la componente coreografica è tuttavia limitata a pochi minuti di musica strumentale, e ben più estesa è l’azione cantata che la incornicia, nello stile della neonata favola in musica. A tenere insieme le tre composizioni, insieme con numerose altre e con deliberato eclettismo, è l’opera a stampa che le accoglie: il Libro ottavo di Madrigali guerrieri et amorosi (Venezia 1638), che dilata all’estremo i confini poetici del genere musicale nel titolo e che è summa retorica e testamento artistico di Claudio Monteverdi in ciò che attiene alla vocalità profana.

Un esile fil rouge, soglia di genialità, ha da poco inteso collegare in una performance filata e organica, scalando dal canto del sonetto di Petrarca a quello dell’azione drammatica, Or che ’l ciel e la terra e ’l vento tace, Non avea Febo ancora e il Ballo delle Ingrate: con titolo cumulativo e posticcio di Altri canti d’Amor, ripreso dall’incipit del Libro ottavo stesso, quattro recite hanno avuto luogo a Martina Franca, per il Festival della Valle d’Itria, nel chiostro di S. Domenico, dal 15 luglio al 1o agosto. La circostanza nuziale connessa alla genesi del Ballo delle Ingrate ha ispirato a ritroso il percorso drammaturgico: si finge che nel mezzo della festa una sposa, muta, cada addormentata e in un triplice sogno (o incubo) viva l’annullamento di sé in un amore non corrisposto, l’ostinazione a pretenderlo mentre il tempo fugge, l’asperrimo giudizio di sé nel tribunale d’Amore. Pretesti di poco impatto sullo spettatore d’antica fede monteverdiana. Ma nelle recite martinesi ciò che educa, turba e morde il cuore, ed esalta la mente con intuizioni dottissime, inizia con fatti teatrali tangibili, imperativi, là dove le note di regìa cessano di dettare le regole del gioco. Alessia Colosso firma le scene, Sara Marcucci i costumi, Giuliano Almerighi le luci; aiutato da Giulia Viana nell’àmbito della loro compagnia Eco di Fondo, Giacomo Ferraù – Dio lo benedica – è il giovane regista-rivelazione, debuttante nel teatro lirico, cui si deve innanzitutto lo spettacolo-gemma del festival e un entusiasmante terremoto d’idee nell’attualità operistica.

Bastino due immagini a far correre il brivido lungo la schiena di chi non c’era, e a rinnovare la gratitudine intellettuale in chi sedeva tra il pubblico del chiostro: la Ninfa che si culla lenta sull’altalena, regolare sul discendere ciclico del tetracordo, mentre un uomo nero e senza volto le imbianca i capelli a molli colpi di pettine; l’insospettato tappeto sul tavolato scenico che, sollevato, schiude alla vista gli inferi infuocati e le donne ingrate prigioniere tra le fiamme: miracoli di drammaturgia e scenotecnica che insidiano, con una visione profetica e una spesa di due lire, le più memorabili prodezze nel teatro della meraviglia.

Dal formicolio dei movimenti mimici al sanguigno realismo del ballo, mirabile è non solo il lavoro del coreografo Riccardo Olivier e dei danzatori della Fattoria Vittadini, ma anche il disinvoltissimo coinvolgimento scenico di cantanti sbalzati a piena consapevolezza attoriale. Deliziosamente sbarazzino l’Amore di Graziana Palazzo, convenientemente matronale la Venere di Anna Bessi. Nell’ostica ed estesa parte di Plutone si scopre Eugenio Di Lieto: forbito nel fraseggio, divertito nel gesto, nero nel timbro, smaltato nell’emissione, sarcastico nel porgere. Gli assi della Ninfa e dell’Ingrata, con i relativi capitali lamenti, toccano entrambi a Cristina Fanelli, che li rende tanto più struggenti con la fragrante naturalezza della prosodia e la disarmante semplicità espressiva. Le stesse doti si estendono alle altre nel coro delle Ingrate: Ilaria Bellomo, Arianna Rinaldi e Antonia Fino; nonché al trio che commenta le sorti della Ninfa: con Di Lieto stesso, i tenori Yasushi Watanabe e Raffaele Feo.

Come concertatore alla testa dell’Ensemble barocco del Festival della Valle d’Itria, Antonio Greco fissa del resto il suo più alto merito nella preparazione dei cantanti: l’obiettivo retorico di ciascuna frase è millimetricamente messo a punto, né si perde una sola parola. Piace che egli interpoli un paio di sinfonie di Salomone Rossi, contemporaneo di Monteverdi, con ciò assecondando anche disposizioni del Divino Claudio stesso (per esempio in apertura del Ballo delle Ingrate); piace meno che inserisca, anacronisticamente, il Plainte di Louis de Caix d’Hervelois, più tardo d’un secolo e alieno nello stile. Fa sbuffare il musicologo quando, nella ricerca calligrafica, fa muovere in arpeggi consonanti il basso continuo sotto il lamento dell’Ingrata, che dovrebbe invece rimanere fermo in un accordo dissonante mentre la voce cerca di sfuggire alla sua forza d’attrazione. Ma gli si vuole complicemente bene quando, con rapida mossa ai registri dell’organo, sottolinea con lo zolfo del regale la parola inferno, e un attimo dopo la parola cielo con l’incenso del principale: gocce di sapienza madrigalismatica in uno spettacolo impossibile da dimenticare.

 


 

 

 
 
 

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