L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

simon boccanegra, teatro alla scala

Ancora Boccanegra, miracoloso Chung

 di Francesco Lora

Al Teatro alla Scala, quarta ripresa del capolavoro verdiano in sole nove stagioni: immotivata a giudicare dall’esiguo allestimento scenico con regìa di Tiezzi, imperdibile a giudicare dalla nobilissima lettura del direttore coreano. Non sempre all’altezza vertiginosa di quest’ultima la compagnia di canto: Nucci, Beloselskiy, Jenis, Stoyanova e Sartori.

MILANO, 10 febbraio 2018 – Regìa di Federico Tiezzi, scene di Pier Paolo Bisleri e costumi di Giovanna Buzzi: con tali artefici fu concepito, nel 2009, l’allestimento per il debutto di Daniel Barenboim e Plácido Domingo (da baritono) nel Simon Boccanegra di Verdi. Tutto liscio finché la scena era quella della Staatsoper Unter den Linden, il capolavoro in oggetto rimanendo a Berlino un titolo povero di tradizione e aspettative. Meno bene quando l’allestimento, coprodotto, è passato al Teatro alla Scala. Lì Claudio Abbado e Giorgio Strehler hanno officiato, a più riprese dal 1971 al 1982, il Simon Boccanegra modello e spavento di ogni altro; e lì nessuno aveva più osato una diversa lettura contro quel fantasma di perfezione (l’isolata esecuzione in concerto del 1988, diretta da Georg Solti e con cantanti vicini più alla scuderia discografica della Decca che all’alveo poetico di Abbado, è eccezione che conferma la regola). A Milano, dunque, lo spettacolo di Tiezzi ha fatto smunta figura di sé nelle recite del 2010, e ancor più nelle riprese del 2014 [leggi la recensione] e 2016. Della sua esiguità esegetica si è già detto in queste pagine; e la rilettura delle note di regìa riconferma la latitanza di una chiara mira drammaturgica, nonché il mancato approfondimento del lavoro sin qui intrapreso.

L’abbonato milanese avrà motivo d’irritarsi innanzi alla quarta ripresa di questo Simon Boccanegra nell’arco di sole nove stagioni: otto ulteriori recite sono in corso dall’8 febbraio al 4 marzo, mentre Tiezzi pare lontano ora più che mai, in concomitanza del suo nuovo spettacolo Freud o l’interpretazione dei sogni nel vicino Piccolo Teatro (quello intitolato a Strehler). Pure, varrà la pena di tornare in pellegrinaggio alla Scala, al cospetto di un discorso musicale miracoloso. È quello sostenuto da Myung-Whun Chung, che aveva già concertato la partitura verdiana nel 2016 e che, nell’indagarla sempre più a fondo, ha ribadito il rapporto privilegiato con le maestranze milanesi. Orchestra e coro della Scala, da lui diretti, fissano un nuovo punto inarrivabile per eleganza d’eloquio, morbidezza d’impasto, collezione di timbri tanto preziosi quanto naturali: l’organum di legni che accompagna con profumi inediti il duettino di Gabriele Adorno e Jacopo Fiesco, e l’agnizione tra Simone e Maria Boccanegra con quell’esplosione sinfonica fatta qui sfolgorio trascendente, hanno in comune – tra mille altri passi memorabili – una richiesta estrema di virtuosismo e la sua concomitante urgenza in nome della nobiltà d’evocazione, della bellezza d’esposizione e della chiarezza d’intento.

Spiace allora che la compagnia di canto non faccia adeguato tesoro di un così irripetibile dono. Il settantacinquenne Leo Nucci, nella parte eponima, detta tuttora legge in fatto di risonanza, smalto ed estensione, fino a istituire un paragone impietoso col ben più giovane Dalibor Jenis nella parte di Paolo Albiani. L’emissione si è però fatta più affannosa, sì da precludere caratteri giovanili al Prologo; gesto, colori e accento, a loro volta, si direbbero non tanto perfezionati sull’autorevole e dolente magnanimità del corsaro-doge, quanto ormai mutuati di peso dalla sofferta, grottesca, contorta psicologia dell’amato buffone Rigoletto. Involontariamente troppo giovanile e baldanzoso risulta, al suo fianco, il Fiesco di Dmitry Beloselskiy, basso che all’esotismo timbrico ostenta di aver saputo via via annettere la lezione stilistica di Roberto Scandiuzzi e Ferruccio Furlanetto. Generoso, cospicuo e poderoso l’armamentario vocale di Krassimira Stoyanova, ma più matronale di quanto i trent’anni di Amelia suggeriscano, e sciupato da cadute veriste estranee alla scuola italiana e alla dignità scaligera. Là dove lo spietato mercato delle voci brucia carriere in men che non si dica, infine, Fabio Sartori intona la parte di Gabriele con lo stesso generoso impeto di vent’anni fa.

foto Brescia Amisano


 

 

 
 
 

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