L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Vita e morte di una star

 di Stefano Ceccarelli

L’Opera di Roma apre la stagione estiva del festival di Caracalla con una nuova produzione de La traviata di Giuseppe Verdi. La regia è affidata a Lorenzo Mariani, cui va il merito di aver innovato senza stravolgere il senso dell’opera (trasposta in un’Italia anni Cinquanta/Sessanta). La direzione di Carlo Donadio (in sostituzione di Yves Abel), forse troppo attenta a taluni particolari e eccessivamente rilassata nei passaggi, perde vigore e nerbo in più di una scena, ma regala anche momenti eterei. Nel cast vocale v’è da segnalare la sola buona presenza della Mkhitaryan nel ruolo del titolo.

ROMA, 13 luglio 2018 – È un luglio afoso quant’altri mai a Roma e la stagione di Caracalla, all’aperto e nella splendida cornice delle rovine del complesso termale romano, offre una piacevole frescura a quanti abbiano deciso di assistere a una delle numerose de La traviata di Giuseppe Verdi. Si tratta di una nuova produzione, che interrompe le recite di quella di Valentino – Coppola che va in scena da un biennio al Costanzi; ed è la nuova produzione estiva che affianca la ripresa della Carmen ‘messicana’, che vide la sua première lo scorso anno.

La regia è affidata a Lorenzo Mariani, il cui tocco si percepisce all’istante, soprattutto per chi abbia visto il suo Barbiere rossiniano, sempre pensato per il festival di Caracalla (2016). Questa Traviata è ambientata in un’atmosfera anni Cinquanta/Sessanta, quelli de La dolce vita felliniana, di cui Mariani vuole riprendere – a suo dire – la generale sensazione di quasi totale assenza di speranza. Il salotto della magione di Violetta diviene, quindi, una Via Veneto colma di star del cinema e avventurieri dei rotocalchi; la casa di campagna del II atto, invece, si trasforma nella classica villa a Capri, cullata dalle onde del mare (qui proiettate sullo sfondo bianco che fa da ingresso di un balcone sul mare); la casa di Flora è pensata come un casino di divertimenti, con uno strizzar l’occhio a Moulin Rouge; infine, l’ultimo atto diviene un non-luogo che rappresenta tutto ciò che fisicamente era Violetta, ma in uno stato degradato: il cartellone cinematografico che la ritraeva come star, novella Marilyn Monroe (e con la medesima carriera), diviene la sudicia coperta che raccoglie i suoi conati di sangue, mentre il palco attorno a lei è diroccato. Quest’impianto generale (l’onnipresente palco, che cangia a seconda della scenografia) realizzato dallo scenografo Alessandro Camera è tutto sommato piacevole: e la regia rivela qualche coup gustoso. Nel I atto, il brindisi diviene una sorta di esibizione canora di Violetta e Alfredo, in un teatro (o in un hotel) di via Veneto, fra scrosci di applausi. La stretta dell’Introduzione (sempre del I atto) mostra un divertente balletto in stile rock and roll, fra un via vai di persona in vespa. Vero stupore coglie nella realizzazione della festa di Flora (atto II): un tripudio di luci e tavoli con al centro un enorme cuore sul palco, dove la padrona di casa si dondola; poi ecco l’entrata di discinte ballerine nel ruolo delle zingarelle; e di aitanti ballerini in quelli dei mattadori e piccadori spagnoli, con giacchetto di pelle e maglietta dei Chicago Bulls. In questo frangente, la realizzazione dello svergognamento pubblico di Violetta (finale II) è resa in maniera particolare: Alfredo e Douphol vengono quasi alle mani e il primo addirittura si bacia con Violetta, in un momento sospeso fra risentimento e amore (una resa insolita, estremamente realistica e moderna). Il III atto vede, come ho già detto, l’universo di Violetta, ma diroccato, la sua fama conquistata concedendo i suoi favori che diviene carne da macello per degli avvoltoi fotografi: ne avevamo avuto un’anticipazione nel preludio I, quando i fotografi assediavano la diva costretta, nel suo ruolo, a soddisfarli. Ora Violetta è assediata, appunto, da paparazzi che speculano sull’immagine di lei in rovina, in una sorta di Grande Fratello ante litteram. Una scelta registica singolare: quasi mi sarei immaginato, alla fine, una sorta di conclusione ‘metateatrale’, dove la protagonista si inchinava alla fine delle riprese di un film terminante con la sua morte (in questo caso, proprio La traviata). Invece il non luogo non abbandona Violetta, che muore da star consunta dalla tubercolosi, che è dal regista metaforizzata nelle atroci aspettative che la società massificata riponeva in queste dee dell’epoca moderna. Meriti di Mariani sono l’attenzione ai movimenti, a una regia d’azione e la cura della recitazione dei cantanti: il risultato è certo buono.

La direzione è affidata a Carlo Donadio, che per questa recita sostituisce il titolare Yves Abel. Il suono orchestrale, purtroppo, a Caracalla è frutto di accorgimenti acustici artificiali: e ciò risente sulla brillantezza e anche sulle possibilità dell’orchestra in fatto di mera produzione fisica del suono. Come che sia, il maestro sceglie un’agogica che definirei rossiniana: dilatamento assai largo dei tempi (esempi ne sono la stretta dell’introduzione e le cabalette), che nuoce a molti momenti della partitura (primo fra tutti il potente e drammatico finale II), ma ne rende particolarmente piacevoli altri (il preludio al III atto, ad esempio). Sono convinto che nelle intenzioni del direttore ci fosse certamente quella di far risaltare la brillantezza dei passaggi: ma non è Caracalla il luogo più adatto, acusticamente parlando, per questo tipo di direzione e, comunque, Verdi in più punti ha bisogno di un dosaggio maggiore di tensione orchestrale, adatto a reggere la corrispettiva tensione drammatica delle voci (debole in questa produzione, per esempio, in un momento topico come l’«Amami, Alfredo, quant’io t’amo»). Il coro, da par suo, a prescindere da qualche imprecisione qua e là, offre una discreta prestazione: i due opposti corali (zingare e mattadori) del II atto riescono bene e ricchi di colori – certo la regia lì ha aiutato non poco. Il cast vocale è profondamente diseguale. La Violetta di Kristina Mkhitaryan si staglia indiscussa sopra tutti: una voce morbida, duttile e un timbro gradevole le consentono di brillare nei recitativi e nei passaggi delle fioriture (facilitati dalla direzione all’uncinetto di Abel). Ha una buona presenza scenica e istinto per la recitazione; fa tutto bene, attenta e consapevole. Certo, non posso dire sia stata un’interpretazione indimenticabile: ma il brindisi e l’aria del I atto («È strano! È strano! In core») scorrono bene, se non fosse che si incaponisce alla fine della cabaletta («Sempre libera degg’io») a dover saltare parte della cadenza per sparare il mi bemolle sovracuto, croce e delizia delle Violette, che riesce – manco a dirlo – pessimo. Tranne questo incidente di percorso, però, la sua Violetta è piacevole, tanto nei duetti, nel finale II (dove palesa umana delicatezza), quanto nell’aria del III («Addio, del passato bei sogni ridenti») e nell’arioso del finale III («Prendi: quest’è l’immagine»). Non così bene si può dire dell’Alfredo di Alessandro Scotto di Luzio: a parte i cali di voce (forse non era in serata) e problemi tecnici qua e là, il problema enorme è stata l’interpretazione, totalmente assente. Mancava proprio di sentimento: c’è poco da dire. Il che, quando devi cantare un duetto come «Parigi, o cara, noi lasceremo» (III) è tutto, assieme a una buona tenuta vocale. L’aria d’apertura del II atto («De’ miei bollenti spiriti») è totalmente diafana (almeno si evita il sovracuto alla cabaletta). Insomma: interpretazione da dimenticare. Non fa certo meglio Fabián Veloz nel ruolo di Germont padre: un’intonazione periclitante (se non dubbia in molti passaggi) e un’emissione belante non aiutano a far brillare il ruolo di Germont. Veloz manca, inoltre, della dovuta potenza vocale, risultando gradevole almeno nei passaggi sul fiato: il tutto inficia il duetto (una delle migliori creazioni di Verdi) con Violetta nel II atto («Pura siccome un angelo») e la sua celebre aria «Di Provenza il mar, il suol chi dal cor ti cancellò?». Buoni, complessivamente, i cantanti comprimari, soprattutto Irida Dragoti (Flora) e Rafaela Albuquerque (Annina); gli altri sono: Murat Can Güvem (Gastone), Roberto Accurso (Douphol), Domenico Colaianni (Il marchese d’Obigny), Graziano Dallavalle (Il dottor Grenvil).

Una Traviata piacevole e particolare, dunque, nell’idea registica (indimenticabile la scena della festa a casa di Flora); meno nella direzione e in qualche ruolo vocale.

foto Yasuko Kageyama


 

 

 
 
 

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