L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Libera me

 di Luigi Raso

 Juraj Valčuha dirige con rigore e intelligenza un magnifico Requiem verdiano a inaugurazione della stagione concertistica del Teatro di San Carlo. Eccellente il quartetto di solisti: Eleonora Buratto, Veronica Simeoni, Antonio Poli, Riccardo Zanellato.

NAPOLI, 20 ottobre 2018 - La religiosità di Verdi potrebbe sintetizzarsi in quella esclamazione, "Libera me", ripetuta due volte dal soprano, in chiusura, in pianissimo e in ritardando, della Messa da Requiem. Appare come un auspicio, una preghiera, ma soprattutto come un punto interrogativo, venato da una robusta dose di scetticismo pessimista, idealmente posto a conclusione della plastica, carnale e teatrale meditazione sul tema della morte.

Il Requiem di Verdi appare, infatti, la storia di un’anima di fronte al più angoscioso tra i misteri, la morte.

La genesi della Messa è nota: dopo la scomparsa di Rossini a Passy (13 novembre 1868), Verdi pensò di dedicare alla memoria del Pesarese un’opera collettiva, nella quale le maggiori personalità musicali dell’epoca (“…Mercadante a capo, e fosse anche per poche battute”, scrisse Verdi a Giulio Ricordi) avrebbero dovuto scrivere un brano della Messa. Verdi riservò a sé il Libera me. Il progetto, però, naufragò e rimase lettera morta. Verdi si fece restituire da Ricordi il manoscritto del Libera me.

Il 22 maggio 1873 a Milano muore Alessandro Manzoni: Verdi decide, quindi, di omaggiare in completa autonomia lo scrittore, l’illustre italiano. E il 22 maggio 1874, a un anno esatto dalla scomparsa dello scrittore milanese, Verdi dirige nella Chiesa di San Marco a Milano la Messa da Requiem.

A pochi giorni dalla celebrazione dell’anniversario rossiniano, questa Messa, che apre la stagione sinfonica del San Carlo, ben potrebbe essere idealmente dedicata proprio all’originario ispiratore.

Un’apertura di stagione che può dirsi senza dubbio riuscitissima, dato il pregio dell’esecuzione: la simbiosi tra Juraj Valčuha e il “suo” teatro ormai è un dato di fatto, certificato anche - notizia di questi giorni - dalla conferma, fino al 2021, nella carica di direttore musicale.

Il direttore slovacco ha abituato da tempo il pubblico sancarliano a interpretazioni connotate da profondo rigore, precisione e approfondita e analitica conoscenza della partitura affrontata, sia essa un’opera di repertorio, sia un titolo più ostico della letteratura del ‘900. Quando sul podio c’è Valčuha si ha sempre la sensazione che neppure un dettaglio sia lasciato al caso, ma che l’esecuzione provenga da una lunga e meditata gestazione.

La rilettura del capolavoro “religioso” (con tutti i distinguo del caso) di Verdi è asciutta, aliena da magniloquenza, retorica e sentimentalismo fine a se stesso; l’animula vagula che sembra aleggiare nella complessa partitura, nelle sue fughe contrappuntistiche, non viene mai schiacciata, ma è sempre percepibile, pur nel suo smarrimento, anche in quella terrificante e scultorea traduzione in musica del Giudizio Universale michelangiolesco che è il Dies irae. L’animula è sempre presente nel canto dei solisti e del coro e ci racconta il suo timore e stupore. Un senso di disfacimento, di finis temporis, pervade l’introduzione del Requiem che poi si ricompone nella invocazione speranzosa del Kyrie, stroncata dalla deflagrazione sonora delle apocalittiche percussioni e trombe del Dies irae.

L’interpretazione procede con passo fermo, nitido, spogliando di orpelli ed eccessi il dramma, con perfetto controllo e equilibrio di tutte le sezioni orchestrali e del coro, cedendo soltanto nel Lacrymosa alla tentazione di una più marcata geometricità agogica.

Il suono orchestrale rispecchia questa visione: asciutto, conciso e diretto, ma mai prosciugato.

Ottima la prova del coro, guidato da Gea Garatti Ansini, il quale, dopo il già eccellente risultato del recente Nabucco [leggi la recensione] conferma la propria forma eccellente. Il suono è compatto e corposo in tutte le corde, ben plasmato e idiomatico sin dalle quasi espressionistiche battute iniziali; l’intesa con il direttore e l’orchestra è sempre perfetta, così come la cornice al canto dei solisti: coro e soli sono fusi in uno amalgama sonoro che però non annulla le individualità.

All’eccellente risultato hanno contribuito le quattro voci solistiche, tutte italiane e tutte perfettamente aderenti alle rispettive parti, omogenee sia per il settore maschile sia per quello femminile.

Riccardo Zanellato ha voce autorevole, morbida, canto legato e levigato, dà sostegno a tutta l’architettura musicale e trova accenti di grande intensità drammatica nel Confutatis maledictis e, in particolare, in quell’accorata invocazione che è Voca me cum benetictis.

Il giovane tenore Antonio Poli ha una di quegli strumenti “baciati dalla Natura”, dal bel colore, sempre timbrato, generoso: Poli è incisivo e combattivo ma, grazie alla buona emissione, riesce ad alleggerire e sfumare all’occorrenza, delineando una interpretazione variegata. Convince molto il suo Ingemisco, dolente, sempre ben appoggiato sul fiato, anche nelle screziature di chiaroscuro di cui sapientemente cesella il brano e che gli fanno perdonare l’acuto finale un po’ troppo “schiacciato” ed eccessivamente “di testa”. Poli appare senza dubbio uno dei più convincenti tenori immaginabili al momento per il Requiem verdiano.

Perfettamente in parte è Veronica Simeoni che sfoggia voce dal notevole volume e dal bel colore leggermente brunito, con significativo registro medio, acuti sicuri e timbrati; l’interprete è sempre partecipe: scultoreo e con giusti accenti lo scandire del suo Liber scriptus; mesto e lancinante, invece, l’incipit del Recordare.

Eleonora Buratto, infine, debuttante nella parte, immediatamente mostra la bellezza del suo timbro, la ricchezza di armonici, il perfetto appoggio sul fiato e la rotondità e la precisione degli acuti. La voce è omogenea nell’intera gamma, anche nell’impegnativo registro basso, troppo spesso croce senza alcuna delizia di molti soprani lirici che affrontano il Requiem. La bellezza timbrica, insieme all’intelligenza musicale, la capacità a risolvere i passaggi tra i vari registri, il salto d’ottava finale al si bemolle, la collocano a buon diritto accanto a quei soprani, penso a Mirella Freni e a Barbara Frittoli, che in questa parte hanno saputo coniugare qualità del suono, quadratura musicale e intensità interpretativa.

Il temibile Libera me Domine è risolto egregiamente da Eleonora Buratto, sin dalle note ribattute iniziali, grazie alla padronanza tecnica, a una vocalità che sembra irrobustirsi sempre di più e a un colore vocale che è chiaroscuro nell’incipit, vespertino e trasfigurato nel piano di Requiem aeternam dona eis (…) et lux perpetua a cappella con il coro, lancinante e disperato nel Libera me tra i flutti arroventati di orchestra e coro. La declamazione finale è dal colore cinèreo: e in essa è racchiuso l’enigma dell’intera Messa.

Le ultime note svaniscono nella sala. Valčuha resta immobile. Il pubblico rispetta la pausa finale prima di tributare, stavolta a tempo debito, lunghi applausi e convinti apprezzamenti per tutti.

L’esecuzione, però, per quello che riguarda il pubblico non era iniziata altrettanto bene: uno squillo insistente di un telefonino si è sovrapposto, come nel peggiore degli incubi, proprio sulle prime battute introduttive in pianissimo.

Dopo vari “vergogna!" e "bestie!” da parte del pubblico, Valčuha ha riattaccato il brano dall’inizio.

L’inciviltà galoppante e imperante dei pubblici dei teatri riesce purtroppo a spezzare anche uno tra i più bei incantesimi sonori mai scritti, qual è sicuramente l’Introiutus della Messa da Requiem di Verdi.


 

 

 
 
 

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