L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

A riveder le stelle

 di Roberta Pedrotti

 Jessica Pratt, Daniela Barcellona, Xabier Anduaga, Levy Sekgapane, Luca Tittoto, Riccardo Certi, Matteo Mezzaro diretti da Riccardo Frizza con l'Orchestra Rai e il coro Donizetti Opera aprono il festival bergamasco con un galà di buon auspicio per il futuro della manifestazione.

BERGAMO, 22 novembre 2018 - Per aspera ad astra. Il Festival Donizetti, inutile negarlo, ha vissuto un recente passato un po' faticoso e ha stentato a imporsi, come sarebbe stato naturale, quale fulcro di un'organica Renaissance dello sterminato, ricchissimo catalogo del genius loci, come è invece avvenuto a Pesaro con Rossini. La dinamica direzione artistica di Francesco Micheli ha da subito cercato di smuovere acque che rischiavano di stagnare, ma soprattutto ora, affiancandosi al solido punto di riferimento di un direttore musicale come Riccardo Frizza, la rassegna bergamasca sembra davvero pronta a effettuare il tanto atteso salto di qualità.

Lo compie già simbolicamente con il restauro del Teatro Donizetti, che costringe a trasferire gli spettacoli alla Città Alta, nel Teatro Sociale; la sala ha un fascino strano, con la sua struttura all'italiana e i suoi stucchi che paiono però sospesi un una struttura lignea che si spoglia man mano che si allontana dal palco, fino alle travi nude e rustiche del soffitto; quasi metafora di un punto di svolta di sostanza e non di sfarzo, di un gala d'apertura più concreto che mondano. Per raggiungerlo, l'ascesa ripida, la relativa scomodità rispetto alla sede consueta, è premiata dapprima dalla passeggiata nel centro storico che prelude a un galà inaugurale che si direbbe lussuoso, se non fosse semplicemente, in realtà, degno di Donizetti. A celebrare il genius loci – congiuntamente all'omaggio doveroso al centocinquantesimo dalla morte di Rossini – sfilano, con la bacchetta del direttore musicale, stelle come Jessica Pratt e Daniela Barcellona, giovani tenori emergenti come Xabier Anduaga e Levy Sekgapane, l'alto livello dei pertichini di Luca Tittoto, Riccardo Certi e Matteo Mezzaro. Il coro Donizetti Opera, preparato da Fabio Tartari appare in parte rinnovato e decisamente migliorato rispetto ad anni passati, ma è soprattutto la presenza dell'Orchestra sinfonica nazionale della Rai a costituire il valore aggiunto della serata, con una qualità, una precisione, una duttilità di suono quali raramente ascoltiamo nell'opera. Un'affinità linguistica, quasi istintiva sembra portarli naturalmente a unirsi al canto, ma con la qualità raffinata di chi è abituato a esibirsi in un vasto repertorio sinfonico. Così, anche là dove il culmine di un crescendo potrebbe dar sfogo a rutilanti intemperanze, perfino le percussioni continuano comunque a cantare, come i fiati, come gli archi. Con l'energia e l'incisività che il fraseggio esige, certo, ma sempre con il gusto, lo stile, la sensibilità giusta, ricordando che nel Belcanto l'orchestra non è serva, ma compagna del canto.

La costruzione stessa del programma, poi, favorisce riflessioni che la qualità sostanziale dell'esecuzione corrobora a dovere. Dalla prima opera scritta da Rossini per La Fenice, Tancredi, si passerà al congedo del compositore da Venezia e dall'Italia con Semiramide, su versi dello stesso Gaetano Rossi. Nel frattempo si affiancano i due fondamentali titoli italiani tratti da Walter Scott, l'apripista La donna del lago e Lucia di Lammermoor; il Donizetti francese fa capolino dapprima con l'ironia di Rita (finalmente in lingua originale!), poi con quel capolavoro tragico che è La favorite. Parimenti, Il barbiere di Siviglia, con il suo trionfo tenorile, precede il crepuscolo dell'opera buffa con Don Pasquale, che nell'ouverture ricalca lo schema rossiniano, ma nei temi e soprattutto nell'aria del tenore guarda già a un mondo nuovo di valzer e malinconia. Ascoltare il Prélude dalla Favorite poco dopo la Sinfonia di Don Pasquale, entrambe opere della tarda maturità donizettiana, sintetizza in forme tanto diverse la vastità poetica del Bergamasco: la scelta da parte di Riccardo Frizza è insieme propizia alla varietà di una serata godibile e alla consapevolezza estetica. È un concerto che può essere benissimo popolare, ma è anche un concerto fondato su accostamenti stimolanti e ben pensati. Si tratta veramente della degna apertura di un festival, senza concessioni, con i brani tutti in versione originale e senza tagli.

Così, per esempio, la Pazzia di Lucia si accompagna alla glassharmonica, il cui suono spettrale sembra nato per fondersi al timbro di Jessica Pratt. Il soprano britannico-australiano opta sostanzialmente per la cadenza tradizionale, ma gioca magistralmente con i colori e le variazioni per regalare una scena prima di tutto di grande impatto drammatico, forte anche della vivida presenza di un Raimondo di lusso come Luca Tittoto, di due giovani validi come Riccardo Certi (Enrico) e Matteo Mezzaro (Normanno) a dare pienezza teatrale a un momento che non deve essere solo una vetrina di fuochi d'artificio per la primadonna. Il belcanto è dramma, e lo avvertiamo bene in questa scena, così come lo apprezziamo nelle prove di Daniela Barcellona, che dalla sua lunga, preziosa frequentazione con Tancredi e Arsace porta in dote soprattutto un meraviglioso senso della parola. Rossini non è puro e semplice, astratto edonismo: Rossini è detto nel canto, è recitato, con le note a farsi tutt'uno con la parola, il gesto, lo sguardo e il sorriso. Questo senso teatrale totalizzante del belcanto si esalta poi naturalmente nell'aria dalla Favorite, nella mobilità del recitativo, in un cantabile intimamente frastagliato, in una cabaletta impetuosa con la sua sfida autodistruttiva e la piena espansione della voce.

Con le due stelle, due emergenti si dividono con precisione il repertorio: tutto Rossini per Sekgapane, tutto Donizetti per Anduaga. Il sudafricano, in particolare, sfodera due arie d'asperrima difficoltà, ma che ama presentare in concerto: “O fiamma soave” e “Cessa di più resistere”. Emerge la piacevolezza del timbro fresco, quasi adolescenziale, la facilità in acuto, l'eleganza del porgere, la musicalità schietta. Proprio in virtù di un canto che si percepisce subito naturalmente duttile, gli si può consigliare di perfezionare l'appoggio, perché soprattutto i passaggi d'agilità sembrano non sempre perfettamente a fuoco nel sostegno sul diaframma e quindi non sempre esatti e incisivi come si vorrebbe. Si apprezza comunque molto la cura nell'eseguire esattamente come scritto il passaggio “di tanta crudeltà” nel rondò di Almaviva.

Il ventitreenne Anduaga ribadisce i pregi di una vocalità quasi sfacciatamente privilegiata. Colore splendido, squillo facile, ricchezza d'armonici ben disciplinati: siamo in presenza di un ragazzo predestinato a una grande carriera con la responsabilità di curare e far crescere un tale tesoro. Il musicista dimostra l'istinto e l'intelligenza per perfezionarsi e rifinirsi, come lasciano ben presagire alcune belle intenzioni unite alla comunicativa immediata del suo canto. Nell'affrontare le tessiture più acute (come nel caso di Beppe in Rita e di Ernesto di Don Pasquale) intorno alla zona di passaggio il suono si fa un po' nasaleggiante, ma è una tendenza che potrà facilmente correggere appagando tutte le speranze che si ripongono in lui. Frattanto, sono applausi calorosi quelli che lo salutano a Bergamo, insieme con tutti i colleghi: dive luminose, astri nascenti, partecipazioni di lusso, cantanti, direttore, strumentisti, ma tutti musicisti uniti per Rossini e Donizetti. Non poteva darsi auspicio migliore, per uscire a riveder le stelle.

foto Gianfranco Rota


 

 

 
 
 

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