L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il riscatto dello Schiavo

 di Sergio Albertini Mancuso

L'opera di Antonio Carlo Gomes, mancato il debutto a Bologna nel 1888, fa finalmente il suo esordio italiano a Cagliari, in una produzione di buon livello musicale diretta da John Neschling, che rende giustizia alla partitura e compensa qualche ingenuità della messinscena.

CAGLIARI, 22 febbraio 2019 - Nel 1883, la popolarità di Antonio Carlo Gomes è al massimo. Ha 47 anni, nel suo Brasile, patria natìa, è quasi venerato. A Santos si inaugura un teatro col suo nome, così come al suo nome a Rio de Janeiro è intestato un circolo di nobili signore. Il suo Salvator Rosa inaugura le stagioni di cinque teatri italiani: Padova, Palermo, Cremona, Cagliari e Sassari. Le numerose trascrizioni, fantasie, elaborazioni di gusto salottiero hanno il piacere di “fare Gomes”, soprattutto sui temi dall'opera Il Guarany. E in quel 1883 inizia a comporre Lo Schiavo. Due anni dopo, conclude con l'impresario Bolelli l'accordo di presentare al Comunale di Bologna la nuova opera per l'autunno del 1887. La vita, però, per Gomes, non va per il verso giusto: forti, drammatici dissapori con la moglie, i due figli affidati separatamente all'uno e all'altra; oberato da debiti è costretto a vendere la sua villa di Maggianico, vicino Lecco, con tutto il mobilio; un esaurimento nervoso gli rende impossibile continuare il lavoro di composizione dello Schiavo. Siamo nel 1888: vive oramai in un modesto appartamento con affaccio sulla Galleria Vittorio Emanuele, a Milano. La moglie è morta. Si fanno forti i conflitti con il fertile poeta Rodolfo Paravicini, librettista dello Schiavo: Gomes vorrebbe inserire nel secondo atto l'Inno della Libertà composto dall'amico Giacinto Giganti, contro il parere contrario di Paravicini. La questione finisce in tribunale, e l'opera, che dovrebbe andare in scena a Bologna, viene ritirata dal cartellone. Andrà in scena, grazie a una sottoscrizione, nel 1889 a Rio de Janeiro, e poi a San Paolo. Il successo sarà travolgente.

E in Italia ? La 'prima' italiana dello Schiavo è coincisa con l'inaugurazione della stagione 2019 del Teatro Lirico di Cagliari, in un nuovo allestimento in coproduzione con il Festival Amazonas de Opera di Manaus. “L'opera più riuscita di Gomes. Sicuramente la più matura”, dichiara John Neschling, direttore di questa 'prima' cagliaritana. Sicuramente è opera complessa, e molto articolata. Che somiglia poco o nulla a quanto di coevo si ascoltasse allora. Non Verdi, a cui molti spesso tendono ad associarlo (ricordiamo che l'Otello è del 1887). E men che meno Wagner. Forse Ponchielli, ma il Ponchielli meno noto e frequentato, quello dei Lituani. Un libretto che parte da un testo del visconte di Taunay, amico di Gomes, esponente di punta dell'abolizionismo della schiavitù in Brasile; il soggetto, però, venne anticipato dal Paravicini dal 1801 al 1567; i personaggi principali da neri divennero indios, così come indios divennero i mulatti Iberè e Ilàra, e una nobildonna portoghese venne trasformata in una contessa francese. Un intreccio che mescola oppressione, tragica incomprensione tra amici, amore prigioniero di barriere sociali e familiari. Per far ciò, il Lirico di Cagliari ha affidato la regia a Davide Garattini Raimondi, che, purtroppo, non pare avere deciso null'altro che lasciar che la storia si dipani secondo i soliti moduli narrativo-teatrali obsoleti: le scene, di Tiziano Santi, riproducono nel primo (e terzo) un'atmosfera tropicale con un bosco di liane e, sullo sofndo, un fitto campo di canne da zucchero, mentre nel secondo ricostruisce un terrazzo assolato in casa della contessa di Boissy, con tende di paglia indigena (come specificato nelle didascalie del libretto). I costumi, di Domenico Franchi, mescolano con sapiente naĩveté i registri diversi delle classi sociali: un certo gusto fetish nei 'cattivi' con frusta, una monocromia color sacco per gli schiavi, una affettata eleganza tra i nobili. Le luci, di Alessandro Verazzi, fondamentalmente si risolvono in un continuo cambio cromatico del fondale; solo nella romanza di Americo del secondo atto il tenore viene isolato da un fascio di luce, ed è tutto.

Il limite dello spettacolo, come si diceva, è in una regia che lascia ai cantanti una gestualità di maniera, in cui le braccia agiscono nella solita opzione chiuse/aperte; flaccidi colpi di frusta, ripetute cadute degli schiavi sotto il peso dei loro sacchi, masse corali inevitabilmente disposte sul fondo. La caratterizzazione della Contessa di Boissy, resa quasi sotto forma di macchietta, avviene con un insistente e persistente tremore della gamba, che ne indica lo stato di nervosismo indispettito. Anche no.

Il cast affronta un'opera per la quale non esiste una tradizione interpretativa, e non è facile. La migliore in campo, e la più applaudita, è Elisa Balbo; il giovane soprano affronta un ruolo caratterizzato da risatine picchettate e momenti di coloratura da lirico-leggero con grande souplesse e disinvoltura scenica, e avrebbe meritato forse da parte del regista una caratterizzazione meno macchiettistica. Grande professionista, come sempre, Svetla Vassileva: la sua Ilàra è resa con un canto contenuto, in cui l'amore e il sacrificio sono restituiti da un fraseggio morbido e variegato. Tuttavia la parte è troppo grave per lei, e in alcuni momenti, come in “Alba adorata del natìo mio suol”, il canto fa fatica a superare la fossa orchestrale. Il versante maschile ha alti livelli nel Conte Rodrigo di Dongho Kim (che interpreta anche il ruolo di Goitacà), nell'Iberè di Andrea Borghini (ottima la resa della romanza “Sogni d'amore, speranze di pace”, al III Atto, uno dei migliori momenti della partitura) e nel Gianfera di Daniele Terenzi; efficaci nelle parti minori anche Francesco Musinu (nel doppio ruolo di Lion e Tupinambà), Marco Puggioi (Guaruco) e Michelangeo Romero (Tapacoà).

Rimangono invece delle perplessità sull'Amèrico di Massimiliano Pisapia. È vero, nell'aria più celebre dell'opera registrata anche da Enrico Caruso (1913) e Giacomo Lauri Volpi (1929), il tenore conclude con uno squillo robusto e ben proiettato, premiato dal pubblico con un generoso applauso; ma il suo canto, piuttosto che a quell'Ottocento romantico di Gomes, sembra guardare con insistenza a una stentoreità tardoverista. La dinamica sovente si arena in un mezzoforte costante, e nei duetti, come quello del II Atto (“Conte, voi obliarmi sembrate”, con la Contessa di Boissy), pare non riuscire interpretativamente a mettere a fuoco il suo personaggio.

Di buon livello e senza folclorismi di maniera le coreografie di Luigia Frattaroli al termine del II Atto, e ottimi gli interventi corali, come nel “Siam traditi, siamo perduti” del III Atto, sotto la direzione di Donato Sivo.

Rutilante la direzione di John Neschling, brasiliano al suo debutto a Cagliari, che già anni fa di Gomes diresse Il Guarany (ne rimane testimonianza discografica); sin dal Preludio vien fuori tutto il profilo 'sinfonico' dell'autore, che Neschling sottolinea con competenza anche nell'Alvorada, il preludio orchestrale del IV Atto e nella sontuosa scena V del secondo atto, in cui, a festeggiar l'accordo tra indigeni e francesi, si susseguono una serie di danze culminanti con un Baccanale.

Al termine ampio successo e applausi per tutti. Spiace per gli assenti: ascoltare ancora un'opera di Gomes, e non solo in Italia, non sarà facile.

foto Priamo Tolu


 

 

 
 
 

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