L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Verdi all’Arena, quanta voce!

 di Francesco Lora

All’Arena è in scena un Trovatore delle meraviglie, dove l’impressionante Leonora di Anna Netrebko trascina una compagnia di primo rango: Yusif Eyvazov,Luca Salsi e Dolora Zajick e Riccardo Fassi. Esecuzione integrale sotto la bacchetta di Pier Giorgio Morandi e spettacolo di Franco Zeffirelli a enorme misura della situazione.

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VERONA, 29 giugno 2019 – C’è poco da mettere un retorico “cappello” alla recensione, se è quella dell’attuale Trovatore di Verdi all’Arena di Verona: cinque recite dal 29 giugno al 26 luglio, con le prime tre che, prima di cedere il passo a una seconda compagnia di canto, segnano il debutto di Anna Netrebko sia nell’anfiteatro romano, sia come Leonora per l’Italia. Niente “cappello” e dritti al punto: la signora è un miracolo canoro. Per sfarzo di mezzi naturali e oculatezza di risorse tecniche, va a riprendere il discorso lasciato dalla Mirella Freni degli anni Novanta (quella che al solo aprir bocca faceva cantare con sé anche le coppe dei lampadari); ai più giovani – melomaniacamente cresciuti tra i dischi, ahiloro tardi per l’incontro in teatro – fa sognare cosa siano state Montserrat Caballé e Joan Sutherland. Con una specificazione finale: la statura artistica è quella delle massime, ma la Netrebko non è erede di alcuna; è la Netrebko. Lo spazio areniano mette alla prova e riconferma ciò che già si sa a oltranza: il timbro è vellutato e brunito, l’emissione è coperta e smaltata; l’uno e l’altra sono internamente omogenei oltre l’umano, nonostante la parte di Leonora, secondo la tradizione della primadonna romantica all’italiana, si esprima trascorrendo da un registro all’altro e metta a repentaglio tanto ottime maniere. Qualche goffaggine nei passaggi d’agilità della cavatina dimostrano che il mondo della Netrebko non è più quello di Lucia di Lammermoor e dei Puritani, bensì quello della Forza del destino, di Aida e Don Carlo; ma autentici e sgranati, oggi più che allora, sono i trilli nel cantabile della parte IV, là dove ella letteralmente accarezza quelle tremende salite al La bemolle, al Si bemolle, fino al Do naturale sopracuto. Quanto al volume, formidabile, nulla si ascoltava, prima di lei, dai primi anni del nuovo secolo: eppure, soprattutto sotto questo aspetto, la Netrenko si disimpegna appena.

Ci se ne fa una ragione all’uscita in scena di Luca Salsi, fido collega e nuovo principe dei baritoni italiani, quindi di tutta la rimanente e stellare compagnia di canto. La quantità vocale messa in campo da questo Conte di Luna non è in sé inferiore, ma per conseguirla Salsi mette in atto ogni strategia di risonanza e proiezione: lo rivelano le pietrose superfici dell’Arena, con la loro fisica “risposta” del suono, segno che lì è andata a battere la voce. Benissimo, così si fa. Ma la Netrebko, per essere chi è, sembra non aver bisogno di spingere il motore ai pieni giri: mirato o no, il suo canto avvolge ugualmente con sfacciata souplesse l’anfiteatro da 15.000 posti. Calura e spazio non esentano peraltro Salsi da qualche sbandamento d’intonazione, a sua volta innescato, durante la serata, da un registro acuto poco ubbidiente, forzato e sfocato, sia pure nell’àmbito – guai a dimenticarlo – di quello che è il nuovo principe dei baritoni italiani. Sarebbe un privilegio ricevere da lui, grazie a quel rigoglio timbrico così raro, e tanto più poiché nessun altro lo fa, un Conte con l’età pensata dagli autori: un fratello maggiore impetuoso, prepotente, verosimilmente sui venticinque anni, preferibile all’attuale vilain veristeggiante e in autoritario odore di cinquantenne. Forse tutti gli interpreti e i personaggi, intorno a lui, perfezionerebbero allora i conti con gli anni: Manrico tornerebbe ai suoi ipotetici diciott’anni, Leonora ai suoi forse sedici anziché al matroneo tebaldiano, Azucena ai suoi meno di quaranta ma bruciati da stenti. La barba bianca dovrebbe competere soltanto a Ferrando, memoria degli antefatti: a Verona questi è un superbo Riccardo Fassi, ricco di armonici (dunque di volume e timbro) e agiato anche nel registro acuto pur senza perdere l’ampleur di vero basso. A volergli trovare un difetto e chiudere la digressione: ispira una freschezza giovanile degna di Don Giovanni.

Yusif Eyvazov è il marito della Netrebko, è un tenore di pregio – chi ha preso altro partito si moderi nel vociologare – ed è forse il miglior Manrico ascoltato in Italia da diversi anni in qua. Colpisce per il timbro lucente e l’emissione squillante; sorprende con un’impostazione più all’italiana che alla russa; pronuncia con chiarezza; riconduce con piena legittimità la parte al calibro del tenore lirico e mai drammatico: una persistente nota malinconica e smarrita, opportunamente monotona, indi veritiera ma straniata, grazie a lui riporta Manrico nell’alveo del protagonista romantico, perdente nato – ancorché eroe – in nome di un fato superiore; un personaggio, insomma, come il Gualtiero del Pirata e l’Edgardo della Lucia, qui garbatamente svincolato da una tradizione meno verdiana di quanto si creda. Chi voglia fare esperienza del trapasso tra i registri femminili e quelli maschili, ascolti il passaggio di battuta tra questo Manrico, aperto all’emissione mista, e l’Azucena di Dolora Zajick nel suo indugiare sotto il rigo: le due voci si confondono in uno stesso interregno timbrico. E il mezzosoprano sessantasettenne commuove, anche se il Si bemolle nel Racconto non risponde all’appello e anche se il Do sopracuto nel successivo duetto non è nemmeno tentato. Rimane la leonessa da palcoscenico, con quantità vocale ancora importante, complementare alla Netrebko in un aspetto: se quest’ultima lega i registri nella perfetta omogeneità, la Zajick si compiace invece di un registro grave foscamente affondato in petto, sul quale è innestato con evidente frattura un registro acuto di chiarore sopranile; è esattamente questo il contrasto di “voce doppia” che i contralti ottocenteschi ricercavano. Efficiente il comprimariato di Elisabetta Zizzo, come Ines, e di Antonello Ceron, come Messo; addirittura lussuoso quello di Carlo Bosi, come Ruiz, e Dario Giorgelè, come Vecchio zingaro.

L’arrivo in blocco di Netrebko, Eyvazov e Salsi, gente cha ha messo a punto con Riccardo Muti l’esegesi della letteratura verdiana, procura l’evento meno atteso all’Arena di Verona: un’esecuzione integrale della partitura, con le cabalette esposte le loro canoniche due volte e con le sezioni-ponte salvaguardate e ripetute. Ne consegue la più bella delle ovvietà: l’opera scorre in un baleno con gli accumuli di tensione progettati da Verdi – anziché con lo sciatto dissestamento testuale ratificato dall’uso di provincia – e trasfigura nel contempo l’intelligenza e la generosità di interpreti dotatissimi. A ciò corrisponde anche una delle più rimarchevoli direzioni mai ascoltate da Pier Giorgio Morandi: attenta a srotolare il tappeto rosso non solo per i divi ma anche per la partitura verdiana; efficace nel narrare ed evocare; esigente nel chiedere passi e colori a un’orchestra e un coro areniani qui più vividi che mai. È un’esecuzione, anzi, non solo integrale ma anche sovrabbondante. L’allestimento tuttora in uso è infatti quello creato nel 2001, con regìa e scene di Franco Zeffirelli, costumi di Raimonda Gaetani e coreografia del Camborio; circa quest’ultimo, si tratta non di movimenti delle masse, in sé specialità zeffirelliana, ma dell’interpolazione di ampie sezioni delle danze composte per il rifacimento francese dell’opera: nel Trouvère starebbero in blocco nella parte III, mentre all’Arena un “numero” migra all’inizio della II, a “tropare” il coro dei gitani (idea non d’autore ma, pensa un po’, valevole). La questione partecipa a rammentare la concezione di Zeffirelli e a darne conto: iconograficamente grandoperistica, riconferma, anche attraverso ciò che si vede, come Il trovatore avesse fin dall’inizio per modello il grand opéra. Ci sono pure i cavalli in scena; e quando la Netrebko si inserisce sfarzosa nel concertato della parte II, li si vede anch’essi sussultare, quasi a dire: «Perbacco, questa è brava!».

foto Ennevi


 

 

 
 
 

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