L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La riscoperta dell’America

di Francesco Lora

Fernand Cortez di Gaspare Spontini, opera che fu apoteosi di Napoleone, inaugura la stagione del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, nella sua prima versione mai prima proposta ai nostri giorni. Alta operazione culturale e alto raggiungimento artistico, con la direzione di Tingaud, la regìa della Ligorio, un’orchestra superba e il ferrato canto di Schmunck, Lombardo e Voulgaridou.

FIRENZE, 12 ottobre 2019 – La missione storica del Maggio Musicale Fiorentino come festival è (sarebbe) la riproposta di titoli fondamentali ma rari del repertorio operistico. Alcune edizioni lo fanno ricordare, altre no. Per la prossima rassegna sono ufficiosamente trapelati quattro titoli: Otello di Verdi, Così fan tutte di Mozart, L’Euridice di Peri e Turandot di Puccini; uno (la proto-opera di Firenze 1600) ha aria di ricercatezza, tre (Cipro, Napoli, Pechino) odorano di consueto. Ma (ma): in tempo di crisi del canone, tra riscoperte e filologia da una parte, e casualità del pubblico dall’altra, succede sempre più spesso che un giovane melomane vanti miglior familiarità con il recitar cantando che con i capisaldi di Mozart, Verdi e Puccini. Ma (ma): il nuovo sovrintendente e direttore artistico, Alexander Pereira, se abbiamo imparato a conoscerlo tra Zurigo, Salisburgo e Milano, si sarà già rimboccato le maniche onde riconcepire in quattro e quattr’otto il cartellone secondo le proprie strategie. Otello è stato confermato; palla al centro sul resto. Una cosa è tuttavia certa: la consueta stagione d’opera fiorentina tesa tra ottobre e aprile, firmata ancora dalla gestione uscente, sembra ribaltare i ruoli con il suo intrigante retrogusto festivaliero; c’è Carmen, c’è Rigoletto, c’è La bohème, c’è Don Pasquale e c’è La traviata, a tenere buono chi si pasce di popolare; ma c’è anche Il trittico, che tra le opere di Puccini implica un particolare ed encomiabile sforzo produttivo, e c’è anche Risurrezione di Alfano, una rarità rimasta tale dopo il gran rifiuto – si racconta – di Mirella Freni.

Soprattutto, c’è un gesto audace, superbo, poderoso e sospirato nel titolo che ha appena inaugurato la stagione: Fernand Cortez ou La conquête du Mexique di Gaspare Spontini, la colossale tragédie lyrique che fu apoteosi di Napoleone. Quattro recite dal 12 ottobre (una data a caso, visto il soggetto) al 23 del mese. Corra ad ascoltarla chi voglia finalmente tastare la cerniera tra l’età di Mozart e quella di Rossini, nonché l’alternativa italo-francese a Beethoven stesso: non si rischia mai di sopravvalutare Spontini, ingegnere sommo della strumentazione, organizzatore di enormi respiri teatrali, evocatore di mondi culturali a capi opposti. Se Parigi fu la capitale dell’Ottocento – lì finirono le carriere di Bellini, Donizetti e Rossini, e persino quella di Verdi, con le nuove pagine per l’Otello destinato all’Opéra – si può ben dire che proprio il compositore di Maiolati battezzò quel secolo musicale. Circa Fernand Cortez, gli intenditori conoscono l’opera attraverso alcune registrazioni: quella di una recita napoletana con la Tebaldi (1951), quella della lettura di Matačić alla RAI di Torino (1974) e quella consegnata al CD dall’esperto Jean-Paul Penin (1998). Tutte queste testimonianze, però, si basano sull’incisivo rifacimento parigino del 1817, là dove a Firenze è stata riproposta, per la prima volta ai nostri giorni, la stesura originale del 1809, ossia quella che davvero fece mastodontica propaganda intorno a Napoleone conquistatore: un impegno assai più gravoso, garantito dalla nuova edizione critica di Federico Agostinelli per la Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi.

Dopo le dimissioni di Fabio Luisi, già fautore del progetto spontiniano, la concertazione è passata su due piedi a Jean-Luc Tingaud, specialista di opera francese ottocentesca – sarà egli a dirigere l’atteso Ange de Nisida all’imminente Festival Donizetti Opera di Bergamo – e qui segnato dal crisma della provvidenza: non solo salvaguarda dai tagli le abbondanti tre ore di musica, stupende danze comprese, ma anche sa trarne e rimbalzare l’enciclopedia di risorse. Si ritrova, nella sua lettura conscia del testo e scevra di capricci, la grandeur accanto alle larmes; si ritrova la classica eredità di Gluck e Salieri non meno che l’imperioso avvento di Berlioz. L’orchestra del MMF risulta da lui levigata in tessuto molle e cangiante da compagine sferragliante e militaresca che è, ma da quel tessuto essa è poi spronata a ritrovare, in più sottile maniera, il connaturato metallo da falange macedone. Il relativo coro fatica a incedere allo stesso inesorabile passo – occorrerebbero maggiore coesione e volume più importante – mentre i passi del Nuovo Balletto di Toscana fanno, con sedici danzatori, per due volte tanti. Ciò avviene anche poiché le coreografie di Alessio Maria Romano – perentorie quelle nell’atto I, piuttosto dispersive quelle nel III – si integrano assai bene in questo nuovo allestimento con taglia forte: lo spettacolo, fedele tanto all’iconografia cinquecentesca quanto al linguaggio teatrale odierno, reca la più rifinita, chiara e coerente tra le regìe di Cecilia Ligorio, incorniciata tra i costumi di Vera Pierantoni Giua e le scene di Alessia Colosso e Massimo Checchetto.

Spiace gettare l’occhio sulla pianta del teatro, in biglietteria, e constatare – finora – il grave invenduto: al cospetto di una tale operazione culturale e di un tale raggiungimento artistico, il premio dovrebbe essere una strenua caccia al biglietto. Le vendite avrebbero potuto essere incoraggiate – va da sé – dalla presenza, in locandina, di qualche cantante di grido disposto a fatiche napoleoniche: e invece non c’è alcuna Meade, alcuna Netrebko, alcun Alagna, alcuno Spyres. C’è però Dario Schmunck: ha il difetto della modesta risonanza sopra una strumentazione che sommerge, ma ha anche il pregio della dedizione assoluta in una parte, quella protagonistica di Cortez, che esige caratterizzazione a palate senza la promessa dell’applauso facile. La controparte messicana di Télasco spetta a Luca Lombardo, veterano di parti tenorili nel teatro francese, ossidato nei mezzi ma incomparabile per idiomatica prosodia. Per l’unica parte femminile di spicco, quella di Amazily, è invece la volta di Alexia Voulgaridou, già pupilla di Riccardo Muti, poi esule dalle scene italiane, infine da poco riascoltata a Firenze in Cavalleria rusticana: un soprano che stupisce a sua volta per il generoso impegno espressivo in un ruolo tecnicamente oneroso, e che in assoluto si impone tuttora per calore e smalto, linea e squillo. Contende con lei la più munita proiezione e la più diretta comunicativa il tenore David Ferri Durà, come Alvar, mentre caratteristi di peso, all’altezza dei rispettivi ruoli, sono André Courville come Sommo Sacerdote e Gianluca Margheri come Moralez.

foto Michele Monasta TerraProject/Contrasto


 

 

 
 
 

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