Di necessità, varietà e virtù
di Mario Tedeschi Turco
La rinuncia obbligata a Mahler, a causa delle recenti norme che impediscono di scritturare l'organico necessario, ha costretto la fondazione Arena a cambiare il programma del concerto inaugurale della stagione sinfonica. In un panorama eterogeneo, fra sacro e profano, Mozart, Haydn, Beethoven e Wagner, Gustav Kuhn ha offerto un'ottima prova, così come l'eccellente soprano Maria Radoeva e i complessi areniani. Latitante, purtroppo, il pubblico.
VERONA, 11 gennaio 2019 - Doveva esserci la Quinta sinfonia di Mahler, a inaugurare la stagione sinfonica della Fondazione Arena presso il Teatro Filarmonico. Le note vicende legislative, che hanno ostacolato l’assunzione di personale a tempo determinato (ciò che era necessario per il grande organico richiesto da quella sinfonia), hanno determinato uno stravolgimento del programma, peraltro correttamente annunciato con ampio anticipo dalla Fondazione stessa. Gustav Kuhn, a capo dell’orchestra e del coro areniani, ha quindi diretto, in un teatro mestamente semivuoto, nell’ordine, la Sinfonia n. 39 di Mozart, l’Egmont di Beethoven, i Wesendonck Lieder di Wagner, quindi l’Ave verum ancora di Mozart e il Te Deum di Haydn. Un programma vario, con brani di repertorio ma non scontati, di quelli che avrebbero dovuto attirare un pubblico vasto. Ma tant’è: a Verona, in Fondazione Arena, i tempi sono complicati, la città guarda un po’ perplessa e un po’ preoccupata al futuro, con fiducia nella Sovrintendente ma più di un dubbio sulla volontà politico-amministrativa di arrivare a un deciso rilancio della stagione invernale.
Meglio parlare di musica, allora, principiando con la pregevole interpretazione che Kuhn e orchestra hanno offerto della Sinfonia mozartiana. I dati salienti dell’esecuzione si sono rilevati in un’agogica spedita, in una bella vaporosità del suono, cui specie i legni hanno apportato trasparenza e precisione a un tempo. Il primo movimento è stato reso da Kuhn con un magnifico contrasto interno, lavorando di microscopica variazione dinamica, tra le cascate di biscrome e l’impulso giambico iterato nell’Adagio di apertura, per poi proseguire dando esatto risalto alle fratture del tactus ritmico. Il movimento lento ha catturato bene il carattere giocoso della prima parte, così come la struttura contrastiva tra questa prima sezione e la seguente, più mossa e drammatica, è risultata di notevole sbalzo, con il nitore degli interventi degli strumentini, ancora una volta, che hanno modellato i fremiti spiazzanti, tipicamente mozartiani, con trasparenza che diresti cameristica, del tutto appropriata all’atmosfera di sommessa eloquenza del brano. Minuetto e Trio hanno ricevuto il corretto impulso danzante, mosso senza enfasi, così come l’Allegro bitematico finale, in cui le iterate riesposizioni declinano una singolarissima reinterpretazione del tempo, ha visto Kuhn e orchestra creare un piccolo capolavoro di controllo antiretorico, tutto sintonizzato sulla misura classica, anche nei dialoghi tra i legni e gli archi in scrittura sincopata che tante volte, in interpretazioni meno avvedute, vengono eseguiti con eccesso iper-romantico. Una bellissima riuscita, cui non ha fatto seguito però un’altrettanto efficace esecuzione dell’Overture Egmont, carente di tensione, di pathos, decisamente troppo compassata, con gli ottoni completamente sovrastati dagli archi e un climax finale purtroppo ben lungi dall’epica a tutto tondo pensata e scritta da Beethoven.
Il culmine della serata è stata l’esecuzione dei Wesendonck Lieder, compiuti secondo trasparenza analitica, opalescenti colori variati, registro elegiaco. L’eccellente giovane soprano Maria Radoeva - oltre a cantare benissimo per ciò che riguarda la tecnica, la spontaneità sorgiva essenziale in quelle che sono pur sempre liriche e non arie operistiche - ha volato sopra le strabilianti miniature orchestrali con dinamiche mosse, varietà di accento, emozione liberata secondo testo d’impianto sempre dentro alla parola poetica. Meravigliosa è stata l’esecuzione di Im Treibhaus (che elabora il tema del preludio terzo del Tristan): finissimo lo sbalzo ascendente della chiusa del secondo verso, «smaragd» (smeraldo), tenuto con il medesimo volume della parola successiva, «kinder» (fanciullo), onde unirne la semantica parola-suono, fondamentale nel testo. Oppure ancora la tornita, febbrile intonazione del distico «Ob umstrahlt von Licht und Glanze,/Unsre Heimat is nicht hier!» («sebbene circonfuse di luce e splendore/la nostra patria non è qui»). Una cantante raffinata, cui lo specialista wagneriano Kuhn ha fornito direzione da definirsi ideale.
Il finale del concerto, con l’Ave verum di Mozart e il Te Deum di Haydn, ha messo in mostra le buone qualità anche del coro areniano, come sempre preparato da Vito Lombardi. Lo Haydn è risultato particolarmente apprezzabile per le animate campiture monumentali, tuttavia del tutto prive di turgori fonici, ed anzi sorvegliate dal gesto di Kuhn (decisamente essenziale/funzionale in tutto il concerto, senza alcuna concessione istrionica) all’insegna di un notevole equilibrio tra l’impulso agogico dello strumentale e le sezioni corali omofoniche del principio. Equilibrio che si è mantenuto sino al termine, in un fugato ancora una volta di bella evidenza strutturale.
foto Ennevi